Enea, il fondatore venuto da lontano


 

Lo sappiamo tutti, sin dai banchi di scuola: Roma è stata fondata da Romolo, figlio del dio Marte e di una sacerdotessa di Vesta, Ilia o Rea Silvia, a sua volta discendente dell’eroe troiano Enea che molti secoli prima era giunto sulle coste del Lazio, sposando una principessa locale e dando origine alla stirpe dei re di Alba Longa. E proprio di uno di questi re, Numitore, la nostra sacerdotessa era figlia: senonché Numitore era stato spodestato dal fratello Amulio, che per evitare rappresaglie prima gli aveva ucciso un figlio, poi aveva costretto Ilia a diventare vestale, ben sapendo come questo la vincolava a un rigido voto di verginità che le avrebbe impedito di generare a sua volta un vendicatore. Un voto che Marte aveva ignorato, con quella disinvoltura che è propria degli dèi antichi quando si incapricciano delle giovani e belle mortali.

In realtà, questa versione della saga delle origini è relativamente recente, perché assume la sua forma definitiva solo in età augustea, alla fine del I secolo a.C. Di Enea parlavano già gli autori più antichi della letteratura latina, Nevio o Ennio, le cui opere sono andate perdute in quando cannibalizzate dall’Eneide di Virgilio, che pure si era ampiamente nutrita di quei prestigiosi modelli, ma il loro racconto era ben diverso: Romolo e Remo erano direttamente figli di Enea, o figli di una figlia di Enea, mentre dei re di Alba Longa non c’era traccia. Per non parlare di tutte quelle varianti del mito nelle quali Enea non compare neppure e Roma viene fondata da personaggi che sono per noi puri nomi, perché i testi che ne raccontavano le storie non hanno avuto la ventura di superare l’abisso che ci separa dal mondo antico. Del resto, il mito antico è così: un castello dei destini incrociati, un immenso arazzo nel quale le storie si sovrappongono e si intrecciano come i fili di un ordito, senza che sia mai possibile individuare una versione autentica, perché ogni poeta che le racconta è libero di introdurre variazioni nuove e sviluppi inediti, certo di non violare alcuna ortodossia.

La vera questione è però un’altra: perché i Romani hanno scelto come capostipite un eroe venuto dall’altra parte del Mediterraneo e per di più appartenente a un popolo sconfitto, un superstite costretto a lasciare le sue terre dopo la distruzione della città per la quale aveva invano combattuto. Non era una scelta ovvia, tutt’altro: sul mercato dei miti di fondazione, come in modo un po’ irriverente potremmo definirlo, erano disponibili numerose alternative, alcune decisamente interessanti, come quella che introduceva sulla scena delle origini niente meno che Odisseo, l’Ulisse dei Romani. Se dunque queste varianti sono state scartate, se l’origine troiana ha prevalso su altre possibilità a prima vista più prestigiose, questo dev’essere accaduto perché quel racconto rispondeva a una precisa volontà di auto- rappresentazione della cultura romana.

Certo, racconti su città fondate dai Troiani nella parte occidentale del Mediterraneo abbondavano nella tradizione, e l’Italia faceva in questi racconti la parte del leone: in Sicilia in particolare la presenza dei superstiti sudditi di Priamo era molto ben attestata, e sin da epoca remota. Per non parlare della leggenda che attribuiva a un altro profugo troiano, Antenore, la fondazione di Padova. Lavinio e soprattutto Alba Longa, madrepatria di Roma, si inserivano dunque in una bacino narrativo molto affollato. Tutto questo però ancora non basta a spiegare perché i Romani non abbiano fatto scelte diverse, magari riconducendo la propria origine a un eroe greco oppure a una figura indigena, nata dalla terra stessa del Lazio, in una variante autarchica che era stata prescelta da numerose città antiche, a cominciare da Atene.

S’intende che a questa domanda non saremo mai in grado di dare una risposta precisa. Ma possiamo fare delle ipotesi. Forse i Romani non hanno voluto essere Greci, marcando un punto di distanza e di autonomia dai loro ingombranti vicini; ma è significativo che per farlo hanno dovuto ispirarsi a un racconto greco, quello della guerra di Troia, certi di parlare un linguaggio mitico che chiunque avrebbe capito, vista l’universale diffusione di quel racconto. Forse hanno voluto sottolineare come la loro vocazione di città aperta, capace di accogliere e integrare l’altro e il diverso, affondava le sue radici nel passato più remoto di Roma e come Enea fosse stato in fondo solo il primo dei tanti stranieri che ne avrebbero scritto la storia.