Dire – Fabio Michieli

Dire, Fabio Michieli (L’Arcolaio Editore 2019).

Esce, in versione riveduta e accresciuta, Dire di Fabio Michieli. La prima edizione è del 2008, la seconda del 2019. Undici anni di distanza per un libro complesso, vissuto, sofferto. Ed è lo stesso Michieli a spiegarcene i motivi in una nota a fine libro:

 

Qualcosa era rimasto sospeso; qualcosa era rimasto nella carta, e la carta tardava a ritornare bianca. Riprendere in mano Dire e le carte espunte, con le poesie espunte, però, non bastava. Non bastava sistemare certi versi zoppi, stanchi. Quel discorso, quel dialogo – questo discorso, questo dialogo – erano continuati negli anni: attraverso la lettura di altra poesia, attraverso la scrittura di nuove poesie; attraverso le persone perdute, attraverso le persone incontrate. Solo che i miei tempi non conoscono la parola urgenza; i miei tempi si dilatano; chiedono tempo per comprendere, per elaborare e rielaborare. E quando è il lutto a dover essere elaborato, ogni tempo si sospende da sé. E io ne divento lo strumento.
Avevo lasciato sospeso il discorso con me stesso e il percorso che mi ha portato a essere la persona che sono. Avevo iniziato tardi un dialogo, fatto anche di ascolti e di silenzi, con mio padre, con le mie radici di uomo. E quel nostro dialogo è stato rubato dalla sua malattia.
Ho cercato allora le tracce lontane e dato voce a ciò che lentamente riemergeva, insieme al nuovo.
Dire è un discorso su ciò che ci si lascia alle spalle e su ciò che ci si porta avanti, per proiettarlo nel futuro.
Ho perciò recuperato alcune poesie che alla prima pubblicazione di questo libro non sentivo necessarie, e che invece ora hanno quel senso che prima non ritrovavo.
Ho aggiunto la seconda parte del dialogo, un dialogo che inevitabilmente è diventato un dialogo
in mortem. Ma tra le righe di questo dialogare con mio padre si è innestato un terzo dialogo: quello con l’amore ritrovato, permettendomi di offrire un controcanto alle poesie della prima parte, del primo Dire che riecheggiavano dell’amore perduto.
La linea che ha tracciato la mia vita fino a questo punto non ha chiuso alcun cerchio; ha trovato la spinta per aiutarmi a portare un bagaglio più ricco.

 

Undici anni per concludere un dialogo d’addio che in virtù del suo essere commiato si scopre essere anche apertura ad altro. Perché inevitabilmente nella vita il gesto psicologico di salutare una persona cara che se ne va (o che se ne è andata) è il medesimo che facciamo nell’accogliere una persona altra, una differenza, che però è possibile grazie a quanto avvenuto prima. Come a dire che è necessario seppellire un seme per poter vedere la nascita di un fiore. Fiore che ha nella sua natura non solo il seme, ma anche il nostro commiato al seme stesso.

Michieli ha un pregio che chi vi scrive giustifica (avendolo conosciuto un poco e avendo chiacchierato di fronte a una pizza con lui, una sera) con un suo severo percorso di studi e formazione. Ha il pregio del tempo, e il suo senso. Ha il privilegio della lentezza e dell’attesa. Undici anni utili non solo a rielaborare un lutto, ma anche a interpretare un incontro con gli strumenti dati dal lutto.

Perché Dire è un libro che tratta di un padre che viene a mancare, che dialoga con lui pre e post mortem, che tratta di un amore perduto e trovato, e di nebbia, e di Venezia. Nella prefazione alla prima edizione Augusto De Molo scriveva:

 

Questa raccolta nasce – per me che leggo – sotto il segno di Orfeo e di Euridice. Il mito antico è noto e raccontato dai Classici tra i quali Virgilio nel quarto libro delle sue Georgiche. Così rievoca il mito il grande poeta latino: il pastore Aristeo ha provocato involontariamente la morte di Euridice, sposa di Orfeo (nel mito greco primo grandissimo poeta): sconvolto, il poeta discende agli Inferi e col suo canto, dopo aver placato le anime affannate, ottiene da Plutone, su intercessione di Proserpina, di poter riportare nel mondo dei vivi la sua sposa. Dovrà solo evitare, durante il viaggio di ritorno, di volgersi a guardare Euridice che lo segue. Purtroppo, temendo che lei non lo segua, Orfeo si volge e con quel gesto risospinge l’amata nell’Ade. Il poeta, che placa il dolore col canto e potrebbe salvare persino dalle tenebre dell’Inferno chi ama, non sa resistere (Virgilio scrive victus animi)…
Una tragedia di amore e morte certamente ma anche un’allegoria della potenza salvifica del canto ed anche l’origine prima di quei culti, detti orfici, che costituirono una religione della morte e della rinascita assai diffusa nel Mondo Antico.

 

Mentre nella prefazione alla seconda edizione Gianfranco Fabbri scrive:

 

Esce, arricchita di qualche testo in più, una delle raccolte più belle del catalogo Arcolaio. Sto alludendo a Dire, il primo libro pubblicato da Fabio Michieli per la nostra casa editrice; un lavoro che, per la sua levigatezza e per le sue chiare atmosfere novecentesche (ma non solo), ebbe la strada aperta a una delle collane più rappresentative, «I codici del ’900». Ora questo gioiellino compie un passo avanti e, così rifocillato da qualche cosmetico nutriente, fa il proprio ingresso ne «La costruzione del verso». Nella prima edizione mi ero affidato del tutto alla bella e convincente postfazione di Augusto De Molo, il professore forlivese che con la sua nota raffinatezza e perizia aveva a ragion veduta incentrato il tema sul mito di Orfeo ed Euridice. Naturalmente, tutto stava e veniva legato con una logica che ancora oggi ci fa ammirare il valente letterato. Rileggendo, in questi giorni, il Dire di Fabio ho sbandato completamente dall’antico punto di vista e ho optato per quest’altro, che mi fa vedere il poeta come il titolare di due entità psicologiche e linguistiche, che pure entra nella coppia dei due personaggi del mito. Si tratta del Narrante e del proprio femminino. Il mito viene genialmente ribaltato da Michieli per una ragione a me chiara: l’allontanamento delle due parti linguistiche dell’artista, giacché la vicinanza delle due energie lo farebbe sentire troppo concluso e completo.

 

Vorrei soffermarmi in particolar modo sulla figura di Orfeo ed Euridice che nella sostanza del mito portano ad alcuni (in questo spazio non si possono esaminare certamente tutti) percorsi intertestuali presenti nel libro. Orfeo perde Euridice e resta incompleto di lei. Resta mancante di un suo pezzo di vita. Nello specifico i testi che hanno un dichiarato riferimento sono:

 
 
(Orfeo a Euridice)
 
superai il corpo e il salto mi portò
oltre l’ombra accasciatasi sul suolo
dove nera svaniva anche l’attesa…
 
ma tu continua a non temere il salto
che mi inselva oltre il limite concesso,
ora che dal Lete pura risorgi
 
 
 
 
 
 
(Euridice a Orfeo)
 
voltati e guardami! sei tu, sono io
 
mi interroga il silenzio disceso come nube
a cingermi e salvarmi dall’intorno vociante –
 
sì, voltati e guardami! io ti supplico:
 
spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!
annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami
 
 

Euridice chiede l’annientamento, chiede il dissolvimento che è consapevolezza della perdita. E dell’incertezza. Perché a ben vedere Dire di Fabio Michieli è un continuo argomentare su questi due concetti (perdita e incertezza) che si appoggia su alcune immagini/chiave ricorrenti. E che usa il dire, lo scrivere, per comprendere e rielaborare nella convinzione (oggi assolutamente inattuale) che dire qualcosa sia comprenderlo. Non a caso poc’anzi affermavo che a mio avviso Michieli molto deve al rigore dei suoi studi universitari.

Una delle ricorrenze che più colpiscono, e che tracciano un percorso in questo status di perdita e incertezza dell’autore, è il bianco (e più estesamente il colore). Si vedano ad esempio i testi di cui voglio indicare anche il numero di pagina per facilitarne la rintracciabilità:

 
 
Dicatum
 
volevo un libro chiaro per noi due:
una pagina bianca – quasi pura
 
(pag.19)
 
 
 
 
 
 
a mamma
 
tingerò d’amaranto questi versi
perché tu possa scorgerli lontani
quando la luce imbruna il cielo a sera
 
(Pag.33)
 
 
 
 
 
 
ah, bramerei soccorrerti a ogni ingiuria
se non fosse che a te io grido aiuto –

 
ma la sabbia biancheggia arida al vento
mentre tendo le mani per difendermi
dallo schianto col tempo qui caduto
da una clessidra rottasi al minuto:
 
la vita che non chiesi ma divenne
consegno ora al destino che mi spetta
 
(pag.38)
 
 
 
 
 
 
(Orfeo a Euridice)
 
superai il corpo e il salto mi portò
oltre l’ombra accasciatasi sul suolo
dove nera svaniva anche l’attesa…
 
ma tu continua a non temere il salto
che mi inselva oltre il limite concesso,
ora che dal Lete pura risorgi
 
(pag.42)
 
 
 
 
 
 
Tarocchi
 
si sciolgono i colori come i modi
incerti che non sanno più predire –
 
incredulo mi rimira l’Appeso
mentre le nubi abbuiano la Notte
 
(pag.51)
 
 
 
 
 
 
Ad A. C.
 
se è il dolore di me che ti spaventa
non ha colpa la mia poesia:
                    la vita
a volte si fa nera nell’inchiostro
più del nero che incrosta sulla carta
 
ma la luce che filtra dalla grana
dice a me – nel silenzio – tutto il bello
 
(pag.55)
 
 
 
 
 
 
quanti sono gli ulisse che si possono
scorgere per altrettante odissee?
 
già… perché si sa nati no non fummo
per ogni iniquità né diventammo
per scelta ciò che ora sembra siamo –
 
eppure si è, e si è sempre più
a brani come su sfatte pareti –
 
di noi per ogni strada bianca effige
la calce a terra, pesta dignità
 
(pag.61)
 
 
 
 
 
 
d’un tratto spostare lo sguardo verso
la finestra e vedere fiocchi scendere
tra il verde dell’alta magnolia –
 
è il terzo giorno più freddo d’inverno:
mi sorprende la neve
mentre ciò che la lingua non sa dire
è bianco di dolore
 
(pag. 65)
 
 
 
 
 
 
Caravaggio
 
ora il gemito sborda, quasi slabbra
la coltre di polvere rissosa
 
tra le spire di luce si profila
l’immagine ricolma di terreno
amore e il santo non basta a salvare
il mandato –
 
                    l’uomo è il suo centro, il mondo:
il nero avvolto nella cupa macchia
 
(pag.84)
 
 
 
 
 
 
qui sulla riva dove vira il fiume
coloreranno le foglie l’autunno
 
sopra un cielo di nubi, e l’orizzonte
teso davanti a fermare i colori
 
per questa pagina tornata bianca
 
(pag.85)
 
 

La pagina bianca del primissimo testo si lega a due elementi fondamentali: alla chiarezza (volevo un libro chiaro) e alla purezza (quasi pura). Quest’ultimo non a caso ricorre anche nel testo di Orfeo a Euridice:

 
 
ma tu continua a non temere il salto
che mi inselva oltre il limite concesso,
ora che dal Lete pura risorgi
 
 

La qual cosa ridefinisce il significato di quella pagina bianca, pura quanto Euridice che risorge dal Lete dal punto di vista di Orfeo. Un canto, un dire, una poesia che ha l’ardire di trarre dall’oblio non solo l’altro ma anche il sé (un libro chiaro per noi due) pur nella sottointesa consapevolezza che non avverrà l’esito cercato (Euridice tornerà negli Inferi).

Affrontando invece la questione dal punto di vista del colore, che nel testo iniziale è indicato col bianco, leggiamo, oltre al riferimento alla madre in tingerò d’amaranto questi versi / perché tu possa scorgerli lontani / quando la luce imbruna il cielo a sera, un’invocazione particolarmente accorata:

 
 
ma la sabbia biancheggia arida al vento
mentre tendo le mani per difendermi
dallo schianto col tempo qui caduto
da una clessidra rottasi al minuto:
 
la vita che non chiesi ma divenne
consegno ora al destino che mi spetta.
 
 

Il bianco, inizialmente desiderio di purezza, pacificazione, scrittura, diventa cornice di una presa di coscienza di una vita che mi spetta quasi come condanna. Diventa contesto e simbolo dell’inesorabilità delle cose. Dove l’accettazione si oppone all’attesa che è comunque desiderio, speranza. Infatti, nel succitato testo di Orfeo ad Euridice, si legge:

 
 
oltre l’ombra accasciatasi sul suolo
dove nera svaniva anche l’attesa…
 
 

L’attesa è indicata col colore nero, opposizione chiara al biancheggiare della sabbia dov’è la vita che ci spetta.

Continuando nella lettura leggiamo si sciolgono i colori come i modi / incerti che non sanno più predire. Non basta prendere atto della vita che non chiesi ma divenne per accettare l’incertezza di un futuro imprevedibile, terribile in qualche modo nel suo essere sconociuto e passibile di drammi. E il tempo sconosciuto che sta per arrivare Michieli lo affronta appellandosi ad esempio a Ulisse, dove:

 
 
quanti sono gli ulisse che si possono
scorgere per altrettante odissee?
[…] di noi per ogni strada bianca effige
la calce a terra, pesta dignità
 
 

Non possiamo non notare che la sabbia che biancheggia del testo precedente qui diviene un percorso dichiaratamente dantesco (dalla citazione) che si interseca con l’altro concetto del medesimo testo: il diventare qualcosa che non ci si aspettava. E i due testi in effetti appaiono estremamente interconnessi nonostante la distanza nel libro (pag 38 e pagina 61):

 
 
ah, bramerei soccorrerti a ogni ingiuria
se non fosse che a te io grido aiuto

 
ma la sabbia biancheggia arida al vento
mentre tendo le mani per difendermi
dallo schianto col tempo qui caduto
da una clessidra rottasi al minuto:
 
la vita che non chiesi ma divenne
consegno ora al destino che mi spetta
 
 
 
 
 
 
quanti sono gli ulisse che si possono
scorgere per altrettante odissee?
 
già… perché si sa nati no non fummo
per ogni iniquità né diventammo
per scelta ciò che ora sembra siamo –
 
eppure si è, e si è sempre più
a brani come su sfatte pareti –
 
di noi per ogni strada bianca effige
la calce a terra, pesta dignità
 
 

Proseguendo troviamo un’ulteriore definizione, ancor più emblematica e interconessa, del significato del colore bianco:

 
 
è il terzo giorno più freddo d’inverno:
mi sorprende la neve
mentre ciò che la lingua non sa dire
è bianco di dolore
 
 

Impossibile non notare che il libro chiaro per noi due: / una pagina bianca – quasi pura ora diventa un ciò che la lingua non sa dire / è bianco di dolore. Una resa all’indicibilità nell’accezione fondamentale data con l’immagine precedente di Orfeo ed Euridice. Dire non trattiene più. Resta il dolore che nasce da un percorso di consapevolezza che diventiamo altro da ciò che volevamo, che ci aspettavamo, attraverso un percorso imperscrutabile (i Tarocchi) che aspira ad essere di conoscenza (Ulisse) ma non fa altro che produrre dolore, un bianco di dolore che identifica il sé di fronte al verde dell’alta magnolia.

Procedendo ulteriormente ritroviamo l’opposizione al bianco in Caravaggio dove l’uomo è il suo centro, il mondo: / il nero avvolto nella cupa macchia. E non possiamo non notare gli altri riferimenti al nero (che già prima avevo suggerito) per meglio comprendere questo concetto:

 
 
                    la vita
a volte si fa nera nell’inchiostro
più del nero che incrosta sulla carta
 
 
 
 
 
 
superai il corpo e il salto mi portò
oltre l’ombra accasciatasi sul suolo
dove nera svaniva anche l’attesa…
 
 

Se il bianco indica un’aspirazione, un desiderio poi deluso ed osteggiato da una vita che prosegue sostanzialmente in maniera altra rispetto all’uomo, e lo cambia, trasformando la vita in un qualcosa di imperscrutabile e inconoscibile nel tempo, un viaggio di conoscenza difficile, aspro e doloroso, il nero è una forma di incrostazione, di staticità, quasi a dire che l’incertezza implicita nel bianco è paradossalmente migliore.

Conclude l’opera un testo estremamente emblematico e definitivo per l’analisi qui riportata:

 
 
qui sulla riva dove vira il fiume
coloreranno le foglie l’autunno
 
sopra un cielo di nubi, e l’orizzonte
teso davanti a fermare i colori
 
per questa pagina tornata bianca
 
 

La pagina è tornata bianca è un’affermazione che include tutto il percorso esaminato attraverso le varie sfaccettature di utilizzo del bianco. Un bianco che non è più un desiderio di chiarezza e purezza, ma un’accettazione dell’incertezza della vita, del dramma, del percorso. Quasi a dire che bisogna perdersi per ritrovarsi e che l’unica possibilità per la pagina d’essere bianca non è un suo esserlo già, ma un suo tornare ad esserlo.

Testo che inoltre si lega all’immagine dei colori (si vedano i diversi colori citati in tutta l’opera), delle foglie (ad es. le foglie già da tempo marce al suolo / avidamente attendono lo schianto o oggi che il giorno arretra / tra il tempo e queste foglie), ma soprattutto del fiume. Leggiamo infatti:

 
 
(discende ancora nebbia…)
 

mi smarrisco ora
senza sapere quanto.
Alessandro Brusa

sagome nella nebbia – forse gondole –
nel punto dove il fiume curva a destra
e prende la rincorsa per la foce…
 
di più non vedo da questo finestrino,
mentre conto le sillabe che ci
separano nei versi di un amico
 
 

E il già citato Orfeo ad Euridice dove Euridice risorge dal fiume Lete. Questo per dire che la pagina tornata bianca è la certezza acquisita dell’essere umano nonostante la vita. In un libro umanissimo dove Michieli si riferisce al padre, alla madre, ad un amore perso, ritrovato, a un lutto, resta la consapevolezza della propria esistenza e la necessità di impararla, di accettarla, al fine di ottenere quella pacificazione e apertura auspicate inizialmente ma parzialmente ottenute (parzialmente, si legga la nota conclusiva dell’autore) attraverso un percorso inaspettato, non voluto ma più vivo e vero.

Perché non tutto è come noi vorremmo, ma spesso quello che accade ci forma e si trasforma in qualcosa di più di quello che noi stessi potevamo inizialmente comprendere.

Ringrazio infine l’autore per il gentile ringraziamento che ha voluto porgermi nel libro per quei due piccoli consigli dati assieme a Anna Maria Curci, Alessandro Brusa, Francesco Filia e Cristiano Poletti.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
lieve, un respiro lontano si fa
eco e mistero: voce che si innerva
se un cuore esangue dorme tra le mani:
 
e un sospiro di luce si fa caro
se vi illumina il volto più profondo
del vivere e il sapore che lo sazia
 
 
 
 
 
 
fugge le mie mani tese il tramonto:
 
là dove tutti i limiti si incontrano –
 
dove a ogni notte segue nuovo un giorno
dove ogni fiore lascia posto a un frutto –
 
dove anche la morte è un segno di vita
 
 
 
 
 
 
al tempo bisognava dare tempo
e nient’altro che tempo – quasi fosse
lì tutto il suo mistero – desiderio –
quasi fosse lì il tutto già mistero:
 
ma l’ape che mi ronza sopra il capo
non sa che il polline sul proprio corpo
 
 
 
 
 
 
trovate quella parte che ho lasciata
andare tra le spire del suo vento
 
portatemela intatta come neve
prima che un piede posi tutto il peso
del corpo scomposto di nuova vita –
 
e così non mi resta che accettare
l’evidenza schiarita dalla luce
che rimbalza su questo volto il manto –
 
e fosse pure calce dura al suolo
l’attesa scongiurerebbe lo schianto?
 
 
 
 
 
 
presto verrò da te, ma senza fiori;
non petali: parole da annaffiare –
 
e se ancora rivoglio non il bacio –
ché espansivo tu non sei mai stato –
ma gli occhi lucidi a guardarmi fissi,
a dirmi la fierezza d’esser padre,
 
è perché sono l’orfano che cerca
ogni risposta a questo tuo silenzio
 
 
 
 
 
 
per il dire che non dico e potrei
per il fare che lascio e non dovrei
                        mi odio –
per le parole che non escono
e i gesti che non seguono –
 
mi odio per il volto che non so accogliere
in queste mani cave – quasi un calice –
e per il corpo che sfioro e non so accendere –
 
però sento e non rinuncio a sentire
 
nemmeno nei silenzi detestati
che sono paure – mai incertezze