Diario d’Algeria – Vittorio Sereni

Diario d’Algeria, Vittorio Sereni (Einaudi 1998)

 

Non sa più nulla, è alto sulle ali / il primo caduto bocconi / sulla spiaggia normanna. / Per questo qualcuno stanotte / mi toccava la spalla mormorando / di pregar per l’Europa / mentre la Nuova Armada / si presentava alle coste di Francia. // Ho risposto nel sonno: – È il vento, / il vento che fa musiche bizzarre. / Ma se tu fossi davvero / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna / prega tu se lo puoi, io sono morto / alla guerra e alla pace. / Questa è la musica ora: / delle tende che sbattono sui pali. / Non è musica d’angeli, è la mia / sola musica e mi basta -. Campo Ospedale 127, giugno 1944.

È una delle poesie di Diario d’Algeria, 1947, destinazione di guerra l’Africa dove Vittorio Sereni (1913-1983) non giunse che prigioniero. E per tutta la sua poesia, altissima poesia, mista di circostanze e di riflessioni, perpetuo operare di una ditta lavori in corso di Vittorio Sereni (una poesia, tra l’inizio e la fine, poteva durare anni, per la costruzione dell’opera più che per l’assemblaggio delle parole, sempre in un suo frastornante “silenzio creativo”) ma poesia chiusa in un cerchio d’oblio, in un’immanenza tutta d’ombre cinta.

Diario d’Algeria non ha ancora la “sprezzatura” delle ultime opere, sempre alla ricerca di una prosa poetica, ha invece una sua metrica precisa, sebbene variabilissima, segno certo di un “prendersi sul serio”, cosa che forse nelle contraddizioni del Novecento, da lui patite, venne meno, un po’ meno.

Qui, nella storia degli sconfitti, Raboni vi lesse il vanire dei sogni della giovinezza. Un precoce vanire, per un poeta al secondo libro, dopo Frontiera.

Sempre sospeso tra sonno e sogno, tuttavia, Sereni, che ha traversato indenne la Linea lombarda, l’ermetismo, l’influsso  dei grandi amici che lo circondavano, a partire dal maestro, Banfi, è vitale in poesia fino alla fine improvvisa.  Stella variabile, l’ultimo, è bellissimo.  Perché vi è rappresa la stupefazione davanti alla vita. Forse superiore al decantato Strumenti umani.

Si dice di Sereni: ungarettiano, montaliano, petrarchesco, dantesco. Ma è tutto un brillio. Sereni è inconfondibile, con il retrogusto di un lamento di fondo: che quella che sentiva non fosse musica d’angeli, ma tende che sbattono.  E, naturalmente, di quel smarrirsi giovane che lo segnerà per sempre.

Non a caso è questa la prima poesia che s’incontra nel libro: La giovinezza è tutta nella luce / di una città al tramonto / dove straziato ed esule ogni suono / si spicca dal brusio. // E tu mia vita salvati se puoi / serba te stessa al futuro / passante e quelle parvenze sui ponti / nel balenio dei fari.

Sereni, tutto da leggere, tutto da biblioteca.  

  

Pierangela Rossi