Dialoghi con Amin – Giovanni Ibello


Dialoghi con Amin, Giovanni Ibello (Crocetti Editore, 2022).

La poesia di Giovanni Ibello colpisce subito per la potenza numinosa, il nitore spietato che si incide sulla pagina senza compromessi, per imprimersi con la sua forza tellurica, con la sua dizione netta. Al lettore si chiede lo sforzo di abbandonare ogni rassicurante àncora razionale, di abiurare a ogni volontà esplicativa o interpretativa: siamo di fronte a una parola che è autonoma, assoluta (nel significato etimologico e quindi più autentico del termine), una parola che sprofonda nel proprio abisso, in un “vantablack” (pag. 62) senza redenzione, “la prima musica dopo la fine” (pag. 62), da cui è però sua missione riemergere, estrarre barlumi di senso, esporsi disinibita agli occhi di chi vorrà accoglierla. La scrittura (e quella poetica a fortiori), infatti, è consapevolezza etica, prima di tutto: “Scrivere, ammettere la colpa.” (pag. 57), o detto in altri termini, con un’illuminante citazione in esergo da Cristina Campo: “Di ogni parola inutile ci sarà chiesto conto.” (pag. 29). La poesia di Giovanni Ibello è allora, insieme, un esercizio di rigore stilistico, di economia espressiva, e un’esplorazione ininterrotta delle capacità evocative, simboliche, oracolari della parola poetica che cerca insistentemente di travalicare sé stessa in un “altrove di spine e diademi” (pag. 24). Come ben evidenziato da Milo De Angelis nella sua prefazione all’opera, siamo di fronte a “un universo di simboli arcaici che però viene esplorato da una parola conficcata nei nostri giorni” (pag.5); una poesia allusiva, ma non oscura, che vuole comunicare, farsi condivisione. Non sorprende quindi, come questa raccolta così ricca di slanci verticali, di metafore ardite e associazioni analogiche insospettate, sia anche costellata di versi memorabili che sono riconducibili a esplicite dichiarazioni di poetica, una sorta di glosse interne al testo che possano servire al lettore a orientarsi, farsi guidare senza, però, mai cedere alla didascalia, come per questi versi: “Non so cosa amo, / ma so cosa feconda il mio verso: / fare del corpo la misura del tremendo.” È un poeta colto, Giovanni Ibello – “un uomo dalle vaste letture” lo definisce Milo De Angelis (pag. 4) – un autore consapevole dei suoi mezzi espressivi e della tradizione poetica antica e contemporanea a cui sa attingere con metodo e rispetto, giungendo a una scrittura del tutto personale in cui si respirano gli echi di una saggezza e di un canto antichi, ma condotti a un nuovo varo, a soluzioni che colpiscono per la loro imprevedibilità, per la potenza fulminante con cui sanno terremotare la lingua e restituirla al suo vero compito: “fare alta la vita” (pag. 15).

È una scelta di campo, quella di Giovanni Ibello, come deve accadere per ogni poeta maturo e rigoroso: la sua parola poetica non si arena sulla superficie delle cose, ma ambisce a un ritorno alle origini dove spera di acquisire quella materia ctonia che possa, se non illuminare, per lo meno tracciare la direzione per raccordare l’io con il mondo, il sé con l’altro da sé, il soggetto con l’oggetto: “Torno allo stato embrionale della vita / nel sonno ibrido del feto” (pag. 39), o ancora, “Ma tu conserva / ogni ramaglia di vento e di fiato, ogni parola / che ancora gemma nel fu fuoco.” A questo allude certamente l’esergo in apertura, tratto da Adonis (pag. 11) che è, prima di tutto, rivendicazione da parte dell’autore di una matrice “cosmica” della sua poesia: l’attenzione di questa scrittura è ai temi originari e essenziali dell’esistenza, quelli che da sempre alimentano le ragioni della poesia, quelli che impongono scelte senza possibilità di ritorno, un corpo a corpo con sé stessi, il confronto costante con il proprio stato di perenne e auto-imposta solitudine. Ecco allora la dedica, inevitabile: “Alla poesia, che mi farà solo” (pag. 11).

“La poesia è un lunghissimo addio” (pag.13): è questo “il solo rito possibile” (pag. 19) e spetta al poeta officiarlo con il trauma interiore di esserne conscio, di esserne il solo titolato al suo scandaglio, con nuda consapevolezza. La parola poetica, pur essendo l’unica scelta possibile, la sola che può rappresentare qualche appiglio salvifico e chiarificante, è allora intrinsecamente contraddittoria: tanto più sembra svelare quanto più si allontana dalle cose, si fa altra rispetto al mondo, “perché ogni cosa si annuncia solo mentre si sfigura” (pag.25); da cui le ragioni di un “annuncio” che sembra sempre sul punto di volersi dare, ma non trova mai una forma compiuta, univocamente determinata: concetto, anche questo, ben evidenziato da Milo De Angelis nella prefazione, quando si parla di una verità sempre in procinto di accadere, luminosa e terribile insieme, verità di cui si è consapevoli, senza però poterla mai davvero afferrare. È in questa rivelazione, che mai si esplicita, il fascino, crudele e misterioso, della poesia di Giovanni Ibello che sa lasciare il lettore perennemente in sospeso, nell’attesa di un destino, in sé evidentissimo, ma sfuggente e indecifrabile per chi lo vive, forse perché “Mai nessuno / ci ha chiesto di essere vivi.” (pag. 40). Ecco perché quando è Amin a prendere la parola si definisce “colui che restò nel noncanto” (pag. 27), per concludere dicendo “Sono la vita sognata” […] “Vita sempre sognata, mai vita.” (pag. 27).

Non è un caso, allora, che l’autore abbia scelto di intitolare questa raccolta includendovi il vocabolo “dialoghi” (termine che riporta immediatamente alle radici della filosofia classica, ma anche al bisogno del colloquio, dello scambio): la parola poetica non può darsi senza la necessità di un suo interlocutore, fosse pure muto, ma capace di accoglierla, di liberare chi la scrive dalla vocazione statutaria alla solitudine. “Nella babele del quasi giorno / io non sono solo” (pag.60), si dice in una delle composizioni in chiusura, dove la possibilità della riuscita sta proprio in quel “quasi” (“una soglia magica” – pag.6 – lo definisce Milo De Angelis), in quella capacità di comprensione, per progressivo avvicinamento, sempre ambita e sempre sfuggente: “Quanti millimetri ci separano dal buio?” (pag. 18).

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
Amin, è quasi giorno,
è la resa dei fuochi invernali
l’ectoplasma del divenire.
Dio, gheriglio di stella
insegnaci a svanire
poco a poco
insegnaci il dialogo amoroso
tra i picchi delle braci
e l’arpionata notte.
Adesso è tutta luna nuova
mentre ancora
tiri a sorte la vena
dio anatema,
ti sfiori trasognato le palpebre…
Quanti millimetri ci separano dal buio?
 
 
 
 
 
 
I fiori di tarassaco sulle rotaie
annunciano il disfacimento.
Questo è il cifrario di dio:
una giostra di tagliola e vento.
 
 
 
 
 
 
Verrà la vergine dei falò
verrà la vergine dai seni ulcerati,
un altrove di baci
al kerosene
un altrove di spine e diademi.
Ma noi
dimenticati relitti
ci amiamo nel buio degli hangar
e ripetiamo giaculatorie
dinanzi a un dio demente
che scalcia
nel grembo della cancellazione.
 
 
 
 
 
 
È questo il destino dei corpi:
le amnesie lunari
la lesione tellurica del buio.
Mai nessuno / ci ha chiesto di essere vivi.