Di questo mondo – Daniela Attanasio

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Non tutti i libri di poesia, devo ammetterlo come comunque altre volte l’ho ammesso, mi trovano sempre e comunque favorevole. Io amo la poesia, ne ho fatto il mio lavoro (finchè dura dati i tempi), ma di fronte a certe pagine anche pubblicate da Editori di indubbia levatura resto un po’ perplesso. Che poi il dubbio si scopra in un equilibrio precario tra l’incertezza di non capire ciò che leggo per mia incapacità e l’incertezza che può provenire oggettivamente dal testo stesso, questo è un altro discorso. Tempo fa ho recensito la carissima Livia Chandra Candiani (la recensione qui – poi ho conosciuto di persona Chandra, donna dolcissima e delicatissima) e similmente ad ora avevo prefato dicendo che quella non era esattamente la poesia che amo, ma che ne riconoscevo la statura. Ancor di più adesso di fronte a Di questo mondo di Daniela Attanasio (Nino Aragno Editore, 2013), devo ammettere che mi è necessario fare un passo indietro e confessare di non riuscire a capirlo completamente. È una poesia di cui fatico a trovare l’obiettivo, lo sguardo specifico. Ripeto il dubbio è che sia io a non riuscire a trovarne i punti cardinali.

Un libro che pare sdipanarsi come un romanzo gradevolissimo composto da presenze e memorie, da fatti e frammenti umani che incidono quasi geometricamente (per fare il verso al postfatore Paolo Di Paolo) l’intreccio senza per questo definirlo. Senza disegnare tracce nè tappe precise anzi evocando una nebbiosità in pieno accordo con la sostanza della memoria spessissimo richiamata. Quasi una metafora del vivere. Regalando alcuni versi splendenti che soli bastano a giustificare l’intero lavoro (e che mi suggeriscono, appunto, che sia mia la responsabilità di questo spaesamento che provo): è così bello che potrei morire. Non è andata così / non si muore per troppa bellezza, quella resta attaccata alla vita.

Paolo Di Paolo, che come già detto firma la postfazione di questo lavoro, così lo conclude: Che cosa sappiamo davvero di questo mondo? Le voci transitorie che lo attraversano – inclusa la nostra – sono attendibili, in proposito? Quali notizie ci portano? La vicinanza delle cose è un inganno: la loro nuca celibe ha la distanza di un astro fisso / nel cielo del lunotto, si legge in uno dei bellissimi testi dedicati a una giovane coppia a un passo dal matrimonio. La distanza di un astro fisso: come a dire, le cose stanno ma restano lontane. Il paesaggio, naturale o urbano, ne è la prova più precisa: la poesia di Daniela Attanasio lo investiga di continuo, talvolta lo assale a furia di aggettivi (vorrebbe trattenerlo in una similitudine), ma fa anche sentire fino in fondo la nostra disappartenenza. Abitiamo le isole, le città, ma il fatto stesso di contemplarle ci rammenta la nostra posizione di estranei, di esseri integri e guasti, guasti perchè transitori. Dove finisce il me stesso che abitava questo luogo, un giorno, un mese, un anno fa?

Un libro troppo grande, forse, per chi vi scrive, ma di certo un libro importante che va riletto come ogni poesia lo dovrebbe essere. E che va segnato come in un calendario, verso dopo verso, con la speranza che a fine periodo il tempo di questa poesia regali un pò di quella delicata verità che incontrovertibilmente emana da alcuni testi. Non solo sulla bellezza (come abbiamo appena visto), ma anche su temi ben più complessi che, a ben vedere, sempre di bellezza (nel suo significato più universale ed essenziale, mi permetterei di dire quasi un sinonimo di vita) parlano: qualcosa che aiuta a vivere e a sanare la parte malata / del corpo prima che il tempo traduca in ultime stelle / il cifrario della tua malattia.

 
 
 
 
 
 
Ci sono voci che cadono a terra come cortecce d’ombra –
 
mi dico: pensaci bene prima di raccoglierle
prima che si attacchino al suono
e il suono si confonda nella pastosità delle labbra
 
memorizza la realtà e la sua frazione fluorescente –
c’è più gusto a guardare la scia farinosa delle stelle
la scossa delle lucciole sul campo…
 
 
 
 
 
 
(agosto – nulla)
 
agosto non è più cruento dell’ora meridiana che abbaglia le cucine
e svigorisce i fiori cresciuti nelle aiuole del giardino
 
è un mese fuggevole dove il nulla convince più della cronaca cittadina
più dei gesti quotidiani sotto i portici di Piazza Vittorio
fa da argine alla mia smania di accompagnare il suono
con il passo dell’ispirazione –
 
in misteriosa assenza
il nulla è un accumulo di invenzioni
 
 
 
 
 
 
Dialogo 1
 
Sarà il cerchio infiammato dell’estate a riportare la calma
sugli argini del paesaggio e in ogni cellula viva del corpo –
 
non dubitare, ci vorrà pazienza e avrai anche tu una parte
di pienezza guardando l’isola poggiata su tavole di nuvole
 
il traghetto gonfio di onde che avanza e arretra
come un autoritratto batti tempo. Rivedrai al di là
 
del canale la realtà non vista, quella del desiderio, della
fantasia e la stessa acqua perlacea di sempre, iridescente –
 
qualcosa che aiuta a vivere e a sanare la parte malata
del corpo prima che il tempo traduca in ultime stelle
 
il cifrario della tua malattia.
 
 
 
 
 
 
Bisognerebbe parlare molto con i bambini
e dire loro le cose come sono. Per esempio:
dire ai bambini di guardare in faccia la paura –
da subito come si fa con le favole o la fantasia
le cose invisibili messe ai lati del letto
 
(bisognerebbe però togliere alla paura
il nero del lutto
e il rosso feroce della guerra:
arretrare un po’
verso misure piccole, tempi brevi).
 
 
 
 
 
 
Te la ricordi quella ragazza bruna?
la tua vera passione si avvitava alle sue
gambe come il viticcio ai pali del vigneto
 
il mare era lì, sulla sua pelle bruna
sul ventre di conchiglia abbacinante nella luce lunare
la madreperla degli occhi che ti tagliava in due –
la parte molle del cuore e il duro della faccia.
Cos’è che ti fa ricordare quella ragazza
lasciata come un petalo scuro fra le pagine del libro
 
l’affondo nella vita più intensa della vita? La vocazione di ricordare?
 
 
 
 
 
 
Te la ricordi ancora quella ragazza bruna? aveva la stessa andatura delle onde
e con la stessa imperturbabile scioltezza usciva
dal mare notturno, il viso per metà oscurato
dalla luce della luna si specchiava nel riflesso indefinito
dell’acqua come se quel riflesso fosse il luogo giusto
dove ammarare.
Il primo impulso del sangue ti attraversò di netto
dal cervello al sesso
e le gambe si mossero su corte onde che lì suonavano
come tamburelli d’acqua
 
poi le ombre al fuoco della spiaggia, le mani
al collo di una bottiglia, un contorno di occhi e labbra,
il valore del gioco, della lotta…
 
Da mondo a mondo sono passati trent’anni
di questa livida pace.
 
 
 
 
 
 
Di notte scivola fra materasso e sonno
si arrotola su un fianco
stringe le palpebre come per un dolore
e dietro gli occhi la cerca.
 
Prima che se ne andasse, quando ancora riusciva a parlare
in un sussurro gli ha detto: – tutte le sere, dal letto
chiamami con la malattia della tua voce,
fammi rientrare…