Alberi binari – Roberto Ferrari

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Alberi binari di Roberto Ferrari (qudu edizioni 2014, collana fare voci diretta da Giovanni Fierro) è il primo libro di un poeta già noto nel nord est per le sue diverse letture pubbliche, per essere stato tra i fondatori del Porto dei Benandanti (ottima associazione culturale che organizza Notturni di versi – piccolo festival della poesia e delle arti notturne, e il premio Teglio Poesia), e per la co-direzione della rassegna multimediartistica portogruarese Orchestrazioni.

In Alberi binari Ferrari si presenta per la prima volta con una silloge completa e complessa nella sua architettura compositiva (nonostante abbia già dato buona prova di sé diverse altre volte in antologie e riviste italiane e slovene, ma mai in libro singolo) confermando quanto di lui si aspettava già da tempo. Piero Simon Ostan, altro noto poeta (più giovane di Ferrari), in prefazione racconta: Ho cominciato a leggere le poesie di Roberto con la sicurezza di chi pensa di conoscere come le proprie tasche il percorso poetico dell’autore. Seguo da tempo il cammino dei suoi versi, la maggior parte li avevo già letti, molti li ho ascoltati negli incontri poetici che abbiamo condiviso negli anni. Dopo varie letture della raccolta, la sensazione è stata quella di avere tra le mani un magma incandescente sgorgato da un poeta che ora mi appariva con un’energia e una forza impetuose. […] In questo suo libro l’autore ci dona una poesia i cui versi partono spesso dall’errore, dalla ripetizione, è una poesia che non ha timore di impigliarsi, di incagliarsi in una sintassi che lambisce l’imprecisione. È in sostanza una poesia che si mostra nel suo balbettare, tuttavia Roberto dimostra di saper concepire versi molto limpidi.

Piero Simon Ostan traduce il tono poetico di Ferrari parlando di errore, di ripetizione, come incipit e pretesto per un discorso più ampio che vede l’autore inserito in un contesto preciso, il suo contesto geografico, la sua storia. In quattro sezioni (alberi binari, il carnevale è finito, è un oceano senza pesci questo bicchiere, accanto all’odore del futuro) lo spaesamento di un mondo che è cambiato, in cui non ci si riconosce più, in cui l’uomo si relaziona al paesaggio in quanto punto di riferimento alla ricerca di certezze, di cose note, spesso inutilmente. Il mondo continua nelle sue trasformazioni e lo fa a prescindere dall’uomo, disumanizzando il contesto specifico e il paesaggio che in Ferrari altro non è che la presenza umana nell’anno dell’eternità. Dove la perdita di significati, la spersonalizzazione di cose e persone, non ultimo dell’io, ritrova comunque una sua prospettiva che è possibilità, non a caso della terra (la notte, / dalla casa presa in affitto / sulle pendici del Monte Prat / per pochi gorni / da dedicare totalmente alla sospensione, / fioriva con un vapore luminescente / sopra il Tagliamento, / unico luogo scuro / il Monte di Ragogna). Il libro che come primissimi versi aveva il treno traduce i respiri di ferro si conclude quindi con un’apertura squisitamente poetica, d’una poesia della terra e delle persone, sempre appoggiandosi al senso dell’udito che da azione passiva (l’ascoltare) diventa attività, quindi volontà, quindi possibilità: scivolo dentro / la luce della sera / cantando sottovoce / la paura del buio. Questo nonostante il buio rimanga.

Che poi di errore in Ferrari si può ben parlare, a mio avviso, nell’uso (o meglio nel non uso, a parte un singolo esempio) del linguaggio. Roberto Ferrari a me pare un poeta squisitamente dialettale che però evita di utilizzare questo linguaggio in qualche modo calcando ulteriormente lo spaesamento di cui sopra. Un atteggiamento che viene comunque tradito da alcuni riferimenti a poeti dialettali contemporanei quali Federico Tavan in uno dei testi più belli di questo lavoro (diomio, nella quale compare – e mi pare emblematica – la nota Federico Tavan è stato un poeta italiano). E che trova in tutto il libro una singola eccezione, non completa (non si parla di tutta una poesia ma di qualche verso) ma importante: il carnevâl al è finit – il carneval xè finìo / annuncio ufficiale! La notizia corre sulla bocca di tutti […] cjacarâ dome par comedâ il silenzi – parlar solo par fa mejo el silensio / la festa lascia rottami sbiancati / e scarponi / con cui possiamo calpestarci […] sapere che il pensiero è natura anch’esso / fintremai cumò fin desso / almeno fino a questo momento.

 
 
 
 
Il treno traduce i respiri di ferro
negli accenti molli del mio incanto
mi parlano di cose rotonde
come fossero preavvisi,
da indovinare
 
il mondo del treno
è lo svincolo degli arbusti,
transennati ai lati della corsa
come il percorso della lumaca
che accende le mie attese
 
il pioppo si lascia intuire
intorno alle rotaie e le foglie,
di cui nel sogno mi nutro,
 
io non sono treno e nemmeno fischio
sono il binario che non conosce altre forme
il sambuco che canta senza respiro
il pioppo che dorme e sogna le nuvole
 
 
 
 
 
 
le coltivazioni di pioppi
sulla destra della ferrata
verso portogruaro
prima del ponte sul tagliamento
poco prima di morsano
i pioppi,
tutti messi in fila uno accanto all’altro
tutti perfetti
tutti che filano lisci
sfilacciano la luce del sole
sembrano le connessioni neuronali
tutte messe in fila
una accanto all’altra
con la voglia di perfezione e inconfutabilità
sembrano anche
tutte le lettere
a cui non ho mai risposto
lettere inevase
tutte messe in fila
tutte in ordine
con il loro colore abbagliante
i pioppi, appena prima del ponte sul fiume
si trasfigurano
in un lago di pannelli solari
piantati sulla terra
al posto del mais, che verrebbe su bene
i pannelli in fila
tutti perfetti
tutti che filano lisci
lavorano con il sole
scambiano connessioni
come il cervello
in cambio di corrente
con cui far andare il freezer l’antenna parabolica
i pioppi, con il loro tappetino d’erba fresca
godono del verde, come le lucertole del sole
quando cammini sopra al ponte
il fiume procede
è quasi solo un rumore
tempestato dai suoi diamanti scintillanti
fatti di sasso
ad aprile, se cammini accanto al fiume
evitando il ponte
sugli argini
(come faccio da decenni)
osservo i pioppi
tutti messi in fila
accanto a loro stessi
dall’argine scopro le parole
adatte alle lettere inevase
che mi ronzano attorno
una accanto all’altra
bene in ordine
catalogate in file
tutte perfette
in ordine alfabetico
in ordine di tempo
gli anni trascorrono
uno accanto all’altro
tutti perfetti
tutti che filano lisci
come i pioppi
calcolo gli alberi e le parole
e camminando perdo il conto
ma vedo pescatori
con le loro bandiere di fili di nylon
appesi i pesci
altri dentro le bisacce
in fila perfetti
ma tanti fanno lo slalom
dentro l’acqua divenuta nomade
in contrasto con il prato
che abita sotto i pioppi
e che non vivrà oltre aprile
perchè le foglie degli alberi
rivestiranno il sole
divenuto stanziale
 
 
 
 
 
 
verso i binari c’era il miraggio
di un posto nuovo
pronto ad adattarsi delicatamente
al pensiero molle del futuro.
La mia classe, solo ragazzi
anime miti, parevano,
spariva intorno alla ferrovia ogni cosa
solo la mia matita grigia
e la carta ruvida
non ho mai più disegnato vagoni
e compagni di classe
immersi nel sogno
 
 
 
 
 
 
eppure si andava tutti
al cine
con trasporto
come fosse una cosa vera
ci si incantava
davanti al telone bianco
come fosse cosa vera
come fosse un messaggio
segreto e personale
per ognuno
ci si fermava, poi
a bere distillati d’erbe
e gas in bottiglia
e a ridere
ridere ridere ridere
affinando gli umori
fabbricando secrezioni
incuranti della materia
di cui siamo fabbricati
ridere, a perdita d’occhio
teste che volano
al cine
nelle piazze
teste in fila
file prolungate e rigide
file di teste che s’appisolano
oltre le ghigliottine
oltre i fuochi sacri dell’eresia
di uffici santi
come la fame del drago
file di donne in fila
all’osservazione delle file
donne erette a
miss missing
 
 
 
 
 
 
… persevero
nelle cose più inutili
nel catalogare visioni
inventare riposi
sostare ai semafori
andare al lavoro
ritirare le multe all’ufficio postale
telefonare a tutti
sentire il segnale occupato
conoscere il mondo
fingere di conoscere il mondo
torturare le parole
ragionare sul motore
della mia auto
in panne
eppur sono andato sul monte
più alto di tutti
come un bambino
senza cuore e senza occhi
lasciandomi alle spalle le figure sottili
del mio piccolo minuscolo
insignificante
dolore
di bambino
di uomo
e ora persevero
nell’inutile sospiro
delle mancanze
troppo piene
 
 
 
 
 
 
è un oceano senza pesci
questo bicchiere
senza rumore
straripa lische
dai colori tenui
come la nostalgia inerme
del legno del tavolo
in mezzo metro quadrato
di bolle, lattime e squame
proseguo la mia cerimonia
verso un dio inchiodato
dal canto delle cicale
fino al momento della ruggine
che screpolerà la fissità
e raccoglierà, come il bicchiere,
la rivelazione dell’acqua
che dal cielo alla terra
viaggia trascinata dal suo stesso alito
senza mai poter uscire
dall’atmosfera della terra
come le lacrime
riassorbite nella pelle
 
 
 
 
 
 
diomio
nell’ingresso di casa, la casa della lumaca
staziona il nuovo arrivato
un uccello, credo canarino
una cosa graziosa da morire, come accadrà
al suo spirito selvatico
se ancora ne conserva uno
al di là della gabbia io lo vedo volare
e cantare, come Allen
superare le montagne col canto e il sorriso
il becco sorride, si!
vedo le porte aprirsi, come girasoli
vedo le piume svolazzare alla pioggia
e al sole, che parla di parole e di canti d’uccello
e sonnecchia, il sole, nel tramonto
dove il canarino ricorda
i versi di Federico
ricorda la magnolia, mai toccata
ricorda il mondo che gli sfugge di ala