Desidero una luce non artificiale – Ilaria Palomba

foto di Dino Ignani

 
 
Possessione e frantume, desidero una luce
non artificiale. Apertura. Le chiavi sono nel
morso, suturate. Ho cucito sulla pelle gli anni
dimenticati, uno per uno, gli anni consumati
ad aspettare un senso qualunque. Adesso
non ho nulla da attendere, se non la parola
esatta per dire la tonalità di questa luce che
non ho raccolto e che continua, numinosa e cieca,
a iridare il tuo volto, a scinderlo. Non lasciarmi.
 
 
 
 
 
 
Ti imploro di non eccedere
di camminare con me
in questo paese straniero
nei vetri abitato dai molti
a cui mi rivolgo senza vedere.
 
 
 
 
 
 
Fotografano volti e monumenti,
odore di chiuso in pieno centro.
Le strade nidificano sguardi.
Tutte le case sono assenti,
le case rosse di Campo de’ Fiori
deragliano oblique, risucchiano.
La trama stigia del tuo corpo
riassorbito nell’albore. Aspettami.
Non è fragile chi ha sfidato l’ombra,
ma chi rifiuta di guardarla.
Le notti vuote di Roma, un mito distante.
Ai piedi delle basiliche, delle cattedrali,
sento di appartenere alla città:
stele per un requiem di vento.
 
 
(Ilaria Palomba, inediti)
 
 
 
 

Una parola mossa dal desiderio, più che dall’intelletto, in primo luogo di un rapporto autentico e viscerale con le cose e i fenomeni del mondo; in secondo luogo, la presenza della nominazione in quanto speranza di riuscire ad ottenere la precisione di un dire capace di annientare le distanze nei confronti dell’altro-da-sé, che si manifesta nella figura di un tu, che il dettato tende ad incorporare in esortativi in seconda persona singolare; infine, il gioco delle luci e delle immagini, cosciente del lato oscuro e del pericoloso prodigio dell’ombra, intrinseco in ogni cosa e di cui è necessario prendere atto con lucidità ed attenzione.

Queste le principali istanze e il moto originario che sembrano alimentare le dinamiche di questi inediti di Ilaria Palomba: il risultato d’insieme è quello di una vitalità piena che affronta le aspirazioni più sanguigne dell’esistere e i suoi tremendi rovesci, nella consapevolezza che non è possibile una completezza dell’esperire fingendo di ignorarne gli aspetti più afflittivi e contraddittori; per quanto tale attitudine, infatti, comporti un’esposizione maggiore alla sofferenza e al lucido confronto con il dolore – nelle relazioni, nell’analisi del mondo e di chi lo vive, nel confronto con i luoghi e la memoria – dant vulnera formam, si potrebbe riassumere: perché “non è fragile chi ha sfidato l’ombra, / ma chi rifiuta di guardarla”.

Il primo testo sembra confermare quanto detto sin qui: “possessione e frantume”, principia, collegando in antitesi il desiderio di possesso e lo sgretolamento che consegue a una rottura; eppure, si dichiara, “desidero una luce / non artificiale”, perché il dolore deve essere forza e insegnamento, e non va dimenticato, ma affrontato fino a quando non se ne può ricavare una prospettiva di senso, di possibilità e di direzione (“ho cucito sulla pelle gli anni / dimenticati … consumati / ad aspettare un senso qualunque”). L’unica cosa che resta da attendere è la possibilità della “parola / esatta”, avvinta direttamente alla “luce che non ho raccolto … che continua … a iridare il tuo volto”.

La luce e l’ombra, si diceva, che si fanno presenza, rispettivamente, e assenza della persona cara, dell’altro in senso ampio – accoglienza condivisa, da un lato, e isolamento ed esilio, dall’altro: il “non lasciarmi” in chiusa riassume, attraverso l’esortazione a un tu specifico e allo stesso tempo indefinito, la corporalità e la genuinità del procedimento, che non è frutto di un ragionamento deformante e avulso dal reale.

Ma tali dinamiche non devono cedere alla dismisura, per non rischiare di allontanarsi oltremodo dalla spontaneità e dalla autenticità dell’esserci – e dell’essere in relazione: “ti imploro di non eccedere / di camminare con me”, recita il secondo testo, il cui invito alla misura (esortazione questa che sa di preghiera) entra rapidamente in opposizione con un “paese straniero / nei vetri abitato dai molti / a cui mi rivolgo senza vedere”: anche qui, quel “cammina con me” appare come un desiderio di vita priva di artifici, di circonlocuzioni mistificatorie, isteriche, apparenti, straniere.

L’ultimo testo rivolge il proprio sguardo alla dimensione urbana, tratteggiata con dovizia di dettagli: si associano “volti e monumenti” nelle fotografie dei passanti, con un immediato passaggio da animato a inanimato, proiezione di una disumanità che la metropoli amplifica: subito dopo gli “sguardi” sono nidificati (e dunque agiti, in un certo qual modo) dalle strade, realizzando quindi il procedimento inverso; l’assenza, estesa alle case, diventa monumentale, finisce per risucchiare. E in questo quadro, ecco che si riaffaccia la corporalità, il lucore e l’altro-da-sé, l’essere in relazione e la possibilità di un contatto autentico come fondante prospettiva di senso: “la trama stigia del tuo corpo / riassorbito nell’albore. Aspettami.”

Nonostante i versi conclusivi realizzino una comunione tra l’io del testo e “le notti vuote di Roma” (“sento di appartenere alla città”), anche in questo estratto finale la dinamica del dettato sembra orbitare intorno al verso esortativo che racchiude, che ne tradisce l’apex; e in tale caratteristica della parola della Palomba, coerentemente, si giustifica anche la ragion d’essere del testo stesso, la cui parola, consapevole della propria vitalità e di come essa sia facilmente preda del rovescio dell’esistere e dell’altro, attraverso il linguaggio e la nominazione continua a nutrire fiducia nella possibilità che almeno un tentativo, per quanto tutti gli altri possano fallire, non sarà vano.

Mario Famularo