Dalla buca – Carlo Boassa


Dalla buca, Carlo Boassa (AnimaMundi Edizioni, 2023)

Il poeta Boassa, nel suo ultimo lavoro poetico Dalla buca (AnimaMundi edizioni, 2023), riesce a scovare ogni minimo frammento prezioso della nostra umanità (fatta di bellezza e di tragicità) e portarlo alla luce. Il suo lavoro è, in questo senso, simile a quello di un minatore, il cui grande privilegio è quello di trovare i diamanti. Il compito del poeta è quello di trovare la verità, e il linguaggio scelto da Boassa è breve ma sconvolgente come un lampo.

Il sottotitolo è Speranze suggerite e della speranza trattano i primi brevissimi versi del libro: «Speranza dal vivo, come si copia / per esercizio un nudo, un canestro di frutta». Questa «speranza», che in questo caso appare quasi come un oggetto (paragonata ad un nudo e ad un cesto di frutta da copiare durante una sessione di pittura dal vero), sembra essere un presagio riguardo tutto il percorso che il poeta ci farà fare nel libro. Nonostante ciò, questa speranza non sembra voler guidare verso un lieto fine da favola o da film americano. Si capisce bene dalla quarta poesia della raccolta: «Mie lacrime mai state, / mai nemmeno sognate, / perché siete le stelle, / siete le rose, / e tutte le altre cose, le più belle». Il desiderio pare essere quello di impreziosire il dolore, anche quello non ancora sorto, indicato dalle lacrime che qui sono «mai state».

Nel VI componimento il poeta rende sacro – da sacer, qualcosa che sappiamo appartenere ad un altro rispetto all’uomo – non solo il dolore, ma in questo caso il cielo. Da notare questo elemento: il dolore come qualcosa di interno, il cielo come qualcosa che è sia esterno sia il soggetto sovrastante. È tutto reso sacro allora: ciò che l’uomo contiene, e ciò che contiene l’uomo. Ma leggiamo i versi della sesta poesia: «Sul sagrato, calpestato da suole / di certezza il cielo si torce. / Io mi chino a raccoglierlo, / incerto se stringere il pugno, ché / più non soffra, o portarlo / a casa mia, curarlo». Ancora oggi, come nell’antichità, il ruolo del poeta è quello custodire la bellezza. Allora il poeta rimane necessario per preservare la rara bellezza che c’è nel mondo. D’altro canto, questo «cielo» di cui Boassa ci parla può essere interpretato anche come una dimensione sacra (ora inteso nel suo significato religioso) che manca in più anime. Continua a parlare del cielo, ad interrogarlo, nella poesia che segue. Questa volta, il cielo è personificato da un uccello a cui il poeta rivolge le sue domande: «perché non voli via?». La gabbia di cui leggiamo è un cuore «buono», «dalle sbarre larghe», il cui sportellino è aperto. Anche il lettore può unirsi alla domanda del poeta: perché, se ne ha tutte le possibilità concrete, non vola? La seconda strofa riporta una questione più complessa: l’uccellino si ritrae e si nasconde nell’angolo della propria gabbia quando il dito dell’autore gli si avvicina. Il cielo potrebbe allora essere, in questa poesia, una dimensione dell’anima che ancora fatica a rapportarsi col mondo. Prima che col mondo, però, i contrasti avvengono nell’individuo stesso. Infatti, è lo stesso uccello che, vedendosi avvicinato dal dito dell’autore, glielo becca forte, quasi come fosse un meccanismo di difesa animalesco: alla paura si reagisce con l’aggressività.

Anche dalla prefazione di Franca Mancinelli capiamo che quella di Carlo Boassa è una meditazione profonda che «non chiede risposte ma accoglienza». Infatti, le poesie dell’autore sono frammenti di eternità, senza tempo, che richiedono silenzio e attesa per essere compresi, come per i seguenti versi: «Sia lode al nulla, / grazie al quale sappiamo di sognarci, / e lo sappiamo con la nostra insonnia».

Persiste sempre una sfera spirituale, religiosa, che però talvolta tende a scontrarsi con la crudeltà della vita e della sensibilità personale. Segue una poesia estremamente diretta, in questo senso, e rivolta direttamente a Dio: «Peristi tra le fiamme dell’infanzia / e ancor vi bruci, o Dio, / come un dannato. / Lì mi manda ogni tanto / la mia fede incazzata a raggiungerti». La sfera del ricordo è importantissima in questa raccolta, e l’autore ne fa un uso continuo, forse anche per rendere ancora più concreto il senso di eternità dei suoi frammenti. Qui si parla delle «fiamme dell’infanzia», forse intese come le inquietudini di un bambino già alla ricerca di Dio. Ed è interessante capire come l’autore proprio lì cerchi di ritornare per domandare a Dio di svelarsi.

Insieme alla sfera religiosa ve n’è anche una filosofica (che forse si assomigliano e completano): a dare inizio alla quarantesima poesia troviamo la celebre espressione del filosofo Parmenide: «l’essere è, il non essere non è». Proprio con questo concetto, Boassa descrive alcuni momenti e scelte quotidiani. «Uscendo da una stanza, per esempio, / puoi spegnere la luce / non accendere il buio» così comincia, per concludere con un esempio sulla speranza: «Puoi non sperare più, ma non sperare / di non sperare». Poco dopo troviamo una poesia che tratta il tema del «sublime». In filosofia, secondo Kant, è un sentimento che unisce paura e stupore. Il poeta dice: «Il sublime s’infiltra dappertutto / quando il cuore ci esonda. / Poi la bonifica, / la solidarietà». Se vogliamo intenderlo come un sublime kantiano, allora questo cuore che «ci esonda» è come lo spettacolo che ci spaventa e che al tempo stesso ci meraviglia di un vulcano in eruzione, ad esempio, o di una pioggia di fulmini. La «bonifica, / la solidarietà» è forse la fase successiva ad una catastrofe. Parlando di cuore, una catastrofe emozionale.

Ad accompagnare le riflessioni sull’eternità, spesso irrompe la morte. Ma così come le altre tematiche non vengono affrontate con un approccio tragico, anche quest’ultima gode di questo privilegio. Un privilegio dato dalla presenza della speranza, guida di questo libro.

Colpiscono i primi versi della quarantaseiesima poesia: «Felicità dei morti e dei bambini / una giostra vicina al cimitero!»: qui la speranza è che la vita non sia l’ultima presenza di un uomo sulla terra, ma che possa avvenire di nuovo. E se questo è vero, allora davvero i morti potranno gioire vedendo dei bambini giocare vicino al cimitero dove i loro corpi sono sepolti. Di nuovo, la riflessione del poeta è complessa ma al tempo stesso semplice e limpida grazie sia alla forma utilizzata e anche grazie alla brevità dei versi.

I versi della poesia che chiude questo libro trattengono tutto il senso del grande tema affrontato: appunto, la speranza. «Speranze collaterali, direi, / se l’ovvio è un deus ex machina / calato sull’inizio non la fine». L’autore sembra volerci suggerire una grande verità: la nostra nascita è un’evidenza, nascere è l’unica via possibile. Però, verso «la fine», cioè la morte, non esiste un percorso unico, non esiste una via «ovvia». Questo è il ruolo della speranza: trattenere questo mistero, il mistero che riguarderà la nostra vita, e vivere è farci tentare di scoprire questo mistero.

Caterina Golia

 
 
 
 
XXXI
 
Sia lode al nulla,
grazie al quale sappiamo di sognarci,
e lo sappiamo con la nostra insonnia.
 
 
 
 
 
 
XXXVI
 
Come un pastore conduce il suo gregge
così la speranza i nostri ricordi.
Ed è lupo federe il domani.
 
 
 
 
 
 
XXXVII
 
Peristi tra le fiamme dell’infanzia
e ancor vi bruci, o Dio,
come un dannato.
Lì mi manda ogni tanto
la mia fede incazzata a raggiungerti.