Boris Pasternak

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Boris Pasternak (1890-1960) amava soprattutto la primavera a cui ha dedicato molte poesie, e il mondo della natura gli era congeniale. È forse il più grande poeta russo. Sfuggito ai pogrom per gli intellettuali, che Stalin non amava. C’è un aneddoto al riguardo: Stalin chiese a Pasternak chi fra lui o Mandel’stam fosse il più grande poeta russo. Pur cosciente dei suoi mezzi, Pasternak, obtorto collo, rispose Mandel’stam. Il libro Einaudi dal ’57 a oggi fece molte riedizioni. Va dato atto che l’Einaudi ha un ottimo catalogo, anche di contemporanei. Per il traduttore Ripellino le poesie di Pasternak sono più belle del Dottor Zivago, adatto a suo parere alle biblioteche di borghesi e filistei. Per dargli ragione, basterebbe leggersi la grande poesia qui di seguito.

Pierangela Rossi

 
 
 
 
Essere rinomati non è bello
 
Essere rinomati non è bello,
non è così che ci si leva in alto.
Non c’è bisogno di tenere archivi,
 
di trepidare per i manoscritti.
 
Scopo della creazione è il restituirsi,
non il clamore, non il gran successo.
È vergognoso, non contando nulla,
essere favola in bocca di tutti.
 
Ma occorre vivere senza impostura,
viver così da cattivarsi in fine
l’amore dello spazio, da sentire
il lontano richiamo del futuro.
 
Ed occorre lasciare le lacune
nel destino, non già fra le carte,
annotando sul margine i capitoli
e i luoghi di tutta una vita.
 
Ed occorre tuffarsi nell’ignoto
e nascondere in esso i propri passi,
come si nasconde nella nebbia
un luogo, quando vi discende il buio.
 
Altri, seguendo le tue vive tracce,
faranno la tua strada a palmo a palmo,
ma non sei tu che devi sceverare
dalla vittoria tutte le sconfitte.
 
E non devi recedere d’un solo
briciolo della dalla tua persona umana,
ma essere vivo, nient’altro che vivo,
vivo e nient’altro sino alla fine.
 
 
 
 7
 
 
Come di bronzea cenere
 
Come di bronzea cenere caduta dai bracieri,
di scarafaggi brulica il giardino assonnato.
Vicino a me, a livello della mia candela
Sono sospesi universi fioriti.
 
E come in una fede inaudita
io entro in questa notte,
dove il pioppo vetustamente grigio
ha ombreggiato il confine lunare.
 
Dove lo stagno è un mistero svelato,
dove bisbiglia la risacca del melo,
dove il giardino è sospeso come palafitte
e tiene dinanzi a sé il cielo.
 
 
 
 
 
 
I rondoni
 
Non hanno forza i rondoni serali
di trattenere l’azzurra frescura.
S’è aperta un varco dai petti chiassosi
e s’effonde, e non si può frenarla.
 
E i rondoni serali non hanno nulla
che lassù, in alto, riesca a trattenere
il loro grido enfatico: oh trionfo,
guardate, la terra è fuggita!
 
Come in una caldaia ribollendo con bianco gorgoglio,
se ne va l’umidità rissosa, –
guardate: non c’è posto per la terra
dall’orlo dei cieli al burrone.
 
 
 
 
 
 
Nel vento
 
Nel vento che prova con un ramoscello
se per gli uccelli sia tempo di cantare,
sei intriso d’acqua come un passerotto,
ramo di lilla!
 
Le gocce hanno il peso dei bottoni
e il giardino è abbagliante come un meandro,
asperso ed irrorato da un milione
di azzurre lacrime.
 
Allevato dalla mia tristezza
e da te coperto di spine,
è rinato stanotte,
pieno di borbottìo, di fragranze.
 
Picchiò tutta la notte alla finestra,
e le imposte tintinnavano,
d’un tratto un umido soffio di ràncido
scorse per il mio abito.
 
Svegliato da questa sequela incantevole
di tempi e di soprannomi,
posa il giorno presente
gli occhi addosso agli anèmoni.