Anteprima pordenonelegge: Scrusciu – Erica Donzella

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Scrusciu, Erica Donzella (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2022, collana Gialla).

È da quando si nasce che si tenta il contatto vocale col mondo: una prima faticosa e istintiva ricerca di esistenza di sopravvivenza, quella del vagito. Eppure è un urlo a farsi mezzo di quel respiro necessario, del bisogno espresso affinché venga soddisfatto.

Esistere dall’inizio, quindi, è fare rumore. Farne tanto. Ed è un esistere questo che non prevede di mantenersi sotto una soglia minima delle funzioni vitali. Anzi.

Erica Donzella, con il suo “rumore” – Scrusciu – sembra però mostrarci altro: la voce che parla si mantiene bassa; è un sussurro a dire di questo mondo (un mondo poi fatto di minimi elementi ripresi nella loro umile presenza). Se non quasi un totale silenzio.

Come a dirci che si può credere a un lume – “al sole [– solo] quando tace”. La verità non è dunque da ricercare in ciò che vien enunciato; né puntando lo sguardo in alto, ma – al modo della voce – abbassandolo. “È nelle foglie/ nel tappeto ruggine/ caduta nel margine”.

L’autrice conduce dunque la visione all’interno al suolo alla terra che spesso viene richiamata nei versi. Sembra stilare un vademecum del raccoglimento – fisico e spirituale: l’opera è cosparsa di reiterate formule imperative, come indicazioni imposte o richieste (“mandaci istruzioni precise”). Si percepisce la necessità di una resistenza severa, di un rigore che si ripropone poi anche nel ritmo cadenzato di alcuni versi: come a stringersi a costringersi nei margini ben definiti di una razionalità estrema, unica maniera forse per sopportare per fare i conti con un dolore che si conosce “per addizione” – talmente noto da fissarne precisi misura peso confine. L’io parlante costruisce dimora, definisce il proprio giusto spazio all’interno di quei metri, della mente che “dove è mancato il corpo” ha comandato la vita.

Tutta pensata/ poco sbucciata nelle ginocchia”.

Eppure questa intransigenza si flette, cede volendo cedere a un tono diverso – più docile (che sia questo il rumore?): è il momento della preghiera. Non richiesta quindi, non istruzione – ma implorazione. Una supplica. È lì che la necessità di rigore porge il fianco a un richiamo animale istintivo e sensuale: ha bisogno anche la carne di parlare – di farsi sentire. Hanno bisogno le bestie di uscire dalla tana. Ed è qui che l’“oscenità naturale” trova il suo spazio di realizzazione: Donzella fa muovere insieme “sacro” e “pofano” quasi a farli coincidere in un unico corpo. E l’orgasmo si fa invocazione, rito atto a santificare.

C’è tuttavia sempre un senso di vergogna verso il proprio stesso abbandono, che riduce e riconduce l’istinto ferino entro le ristrettezze della severità morale già affrontata in precedenza. Sembra un ciclo di trasformazione: il corpo che rifiuta l’obbligo mostrandosi tutto in quell’istinto – nel suo fisiologico scoprirsi. Si mostra, ci si specchia. Si guarda, ma finisce per non riconoscersi. Torna dunque a oscurarsi, a rinchiudersi nella tana. A negarsi quella possibilità viscerale. E ricomincia a mortificarsi nella carne.

È forse questo il “sacrificio [che] non avrà altari”?

La verità, ancora, non ha voce che la esprima.

Rimane però una traccia del “sapere animale che si fiuta nel sangue/ addomesticato” – un’orma trascinata verso la fine dell’opera: è qui che l’autrice dedica ampio spazio a una serie di testi scritti nella sua lingua madre – il dialetto siciliano. È qui che si può credere di trovare lo scarto – il punto di rottura. Nel ritorno al suono primordiale (quasi vagito linguistico, riprendendo il nostro inizio) con cui narrare scene isolate che simili appaiono a sogni o febbrili visioni. È nella lingua originaria che torna libero a parlare l’animale – a uscire dalla tana. A fare il suo legittimo e intimo rumore.

E tutto finisce per raccogliersi in un verso.

Arianna Vartolo

 
 
 
 
La verità è nelle foglie
nel tappeto ruggine
caduta nel margine.
Bisogna credere al sole quando tace.
Starsene come le bestie
dentro le tane.
Fare con la fame una preghiera.
 
 
 
 
 
 
 
Per il marciapiede e il suo inciampo
per la sedia che regge con dovere il peso.
Per tutto ciò che sta in basso
per tutti i nomi comuni delle cose
Io prego.
Questo sacrificio non avrà altari.
 
 
 
 
 
 
 
Imploro la spaccatura
una frattura di parola
che apra l’abisso.
Questa è la fine del male.
Anche la lava si fa pietra
stanca nelle giunture delle ossa.
 
 
 
 
 
 
 
Adduma e ciuscia
adduma e ciuscia
racci focu a stu cori
racci corda
racci n’muzzucuni
cu sti rienti
tu ca sii tutta carni.
adduma e vasa
rammi corda.
adduma e ciuscia
adduma e stuta.
 

Accendi e soffia / accendi e soffia / dai fuoco a questo cuore / dagli corda / dagli un morso / con questi denti / tu che sei tutta carne. / Accendi e bacia / dammi corda. / Accendi e soffia / accendi e spegni.

 
 
 
 
 
 
 
Vutau u tiempu
u nasu si fa sagnu
a manu si ficca na sacchetta.
E m’arrincigghiu comu nu scursuni
sutta a petra.
 

È cambiato il tempo / il naso si insanguina / la mano si nasconde dentro la tasca. / E mi ritiro come un serpente / sotto la pietra.