Anteprima Atelier e Laboratori Poesia: Camera sul vuoto, Bruno Galluccio, Einaudi – recensione di Gisella Blanco


Continua da Atelier con un’intervista di Giovanna Rosadini

 

Camera sul vuoto, Bruno Galluccio (Einaudi 2022).

L’ultima fatica letteraria di Bruno Galluccio, Camera sul vuoto (Einaudi 2022), compie un percorso narrativo ricco di figure retoriche che ritrae, con stile impressionistico, l’esistenza umana.

L’inizio dell’opera è denso di antinomie che raffigurano una condizione di vita indefinibile, incerta e non certificabile, inerente non solo a uno status creaturale ma, anche, a ogni possibilismo ontologico: “caos estremo/e impossibilità di prima luce fuori//la fuga delle galassie inorridite/l’azzardo di creare spazio e tempo”.

Una serie di ipotesi sull’origine delle cose – sull’azzardo della creazione – rappresenta la postura donchisciottesca dell’uomo che, attraverso la sua stessa (co)scienza, scopre la casualità della sua genesi e l’instabilità esistenziale che ne deriva: “una lunga catena di combinazioni accidentali/per cui siamo qui ora a formulare congetture”.

Le credenze più diffuse, d’altronde, risultano essere, spesso, idee improbabili in cui l’uomo vuole credere per salvarsi, illusoriamente, dalla sua stessa oscurità – l’unica realtà, forse, in cui poter sopravvivere. Anche l’universo, come ente unitario, ha un passato aureo che si può immaginare con nostalgia, un tempo in cui “i semi delle future galassie” potevano comunicare, e quella comunicazione – oggi difficilmente immaginabile – era non solo punto d’incontro ma di unione: “potevano scambiare/energia attraverso la zuppa cosmica/ogni parte era in contatto con tutte le altre”.

Dopo un approccio filosofico-scientifico che mira alla visione d’insieme, giunge il dubbio: “le leggi della fisica sono uguali in tutto l’universo?”. Così, si tenta di formulare delle ipotesi sul modo in cui la congerie dell’esistenza si organizzi per moti relazionali (espulsione, espansione, radiazione) tra fenomeni distinti di una stessa grande materia intellegibile. Si intravede costantemente un collegamento tra i grandi sistemi descritti dall’autore e l’apparente minimalismo umano. Sembra come se lo spazio si esprimesse per parabole universali e, così, raccontasse l’insuperabile incomunicabilità tra enti, di cui l’uomo stesso fa quotidiana esperienza: “un trauma cosmico di fatto ma anche/per noi una provocazione concettuale/si ha difficoltà ad ammettere/una impossibilità assoluta di comunicazione”.

“E noi siamo riusciti a ricostruire questa storia/nell’arco di pochi millenni” è la riflessione che conchiude la circolarità di storia e scienza nella dimensione dilatante di una parola poetica che sonda l’inimmaginabile excursus del cosmo a cospetto del suo tempo, fatto di evoluzioni e rotture. Il caos è una narrazione lenta che sembra perpetuarsi in ogni frammento del reale e in ogni segmento cronologico. “C’è un limite prima del quale non ci è consentito spiare”, recita un verso che, cambiando registro comunicativo, sembra ispirarsi a un linguaggio infantile, parlando di un “universo bambino” il cui passato può essere scoperto solo fino a un certo punto (o a partire da un determinato momento, e non prima).

Il racconto dei mutamenti galattici, svolto all’interno di un dettato scandito da tecnicismi e lampi visionari (ma mai irrealistici), imprime ai testi un andamento monologico che descrive la formazione del mondo senza risultare didascalico o assertivo.

Ogni tassello del discorso fisico-scientifico, infatti, apre il varco a una visione d’insieme che oltrepassa il dato empirico per elaborare una disamina dei meccanismi e degli aggiustamenti etici – e tutti immanenti – della creatura umana. Che sia la materia, attraverso la sua espansione, a creare nuovo spazio e nuovo tempo, è un assunto illuminante quanto allarmante: cosa è l’uomo senza la sua corporeità?

La seconda sezione inizia con un correlativo oggettivo che traduce l’impatto mitologematico dell’immagine presente all’inizio del verso (“le colonne di Atene vanno/ad allinearsi nella nostra mente”) in una consustanziale rappresentazione del corpo dell’uomo come prescrizione destinale strettamente collegata alla storia – una storia di cui egli stesso è, in parte, costruttore.

È dal bisogno di affrontare la fragilità che scaturisce l’impulso a stare eretti e guardare in alto. Da sempre, l’uomo volge il suo sguardo (e la sua speranza) ai piccoli nuclei luminosi che mappano la grandezza della volta celeste in “uno spazio dotato di profondità”.

Gli dèi stanno immobili a vegliare sulle vite dei mortali, vigili e granitici come tutte le convinzioni che non si possono provare. D’altronde, “nemmeno l’universo è immutabile”, come ha scoperto Galileo e continua a sperimentare, giorno per giorno, l’uomo contemporaneo, dilaniato in un cosmo dove “tutto appare gerarchico” e “la terra è un pianeta come tanti”.

Le scoperte scientifiche, se da un lato rivelano la realtà, dall’altro restituiscono alla specie umana, estremamente interventista ed egoriferita, tutta la sua impotenza all’interno dell’ecosistema delle galassie.

L’attenzione degli individui sulle cose “le fa precipitare”: è una diagnosi feroce e, contemporaneamente, entusiastica dell’effetto della consapevolezza scientifica sulla vita e sull’ambiente. Quel crollo, infatti, – simile a un precipitato chimico- appare come l’inizio di una nuova storia della materia (e dell’uomo stesso che ne è attore-osservatore): “non è decadimento o perdita/ma il passaggio da una nuvola di possibili/il concretizzarsi giù da un iperspazio/di infiniti luoghi e di infiniti futuri”.

Il poeta (che, in questo caso, è anche un uomo di scienza) si pone in una posa di franca stupefazione rispetto a ciò che potrebbe essere stato e ipotizza il desiderio che si possa tornare nella perfezione utopistica del grembo materno, locus amoenus “in cui non sapere più́ nulla né cercare”.

Nella terza sezione avviene un improvviso slittamento sintattico da versi impersonali a versi in cui un locutore parla in prima persona. Perfino un luogo come un giardino può essere immaginato come un percorso a ritroso nel suo stesso progetto, “una creatura d’immagine”, “una pre-forza” che dis-organizza la composizione conosciuta del reale e la restituisce alla sua forza originativa.

Compare, poi, una prima persona plurale che immette nel discorso un respiro corale: “un fenomeno fisico ribaltato/in cui è il nostro oscillare/ad avere il ruolo di doppia fenditura”. Un tremore manda la terra nell’esilio “in quella/che era sempre stata”: al cospetto delle ragioni della fisica, l’uomo percepisce il proprio “oscillare”, quel “ruolo di doppia fenditura/che fa interferire una particella con se stessa”. Una tale transizione percettiva (e realistica) non può che essere placata “con i gesti rallentati della sera”, con quelle abitudini quotidiane che ripristinano il legame dell’uomo con il proprio stare “nello stesso universo” dei suoi simili.

Non a caso, “hospice” è la poesia successiva. Dalla macroscopia dell’universo, si piomba “nella dimensione di bianco e di vetro” di uno dei posti dove il tempo, fermandosi, esalta la sua velocità (e soprattutto la sua finitezza). La memoria di chi sta per morire si affianca a quella di chi sopravvive: “rimaniamo in uno stato imprecisato/come nella nuvola quantistica/dove un evento può essere vero e non vero nel medesimo istante presente/o nel medesimo futuro”.

Una dimensione tutta mentale ed emotiva è rappresentata da quel ritorno “nella tua cellula” che è scaturigine, fondamento e unità minima e necessaria di ogni creatura. Tale raccoglimento nel proprio nucleo primigenio consente uno sguardo lucido su coloro che hanno preceduto il nostro stupore e il nostro potenziale creativo. In questa ultima produzione poetica di Galluccio, maggiormente piana e narrativa rispetto alle precedenti, sembrano unirsi molte suggestioni novecentesche.
L’eco montaliana (“tu dormi nel tuo universo brillante di oscurità/scendendo gli estremi scalini della visione”) appare tanto più lontana negli scenari della poesia dell’autore, quanto più vicina risulta essere nel suo dettaglio (e nel suo dettato) antropologico e gnoseologico dal quale, però, non affiora quel male di vivere estatico tipico del poeta genovese.

L’uso di lessemi specialistici si unisce a slanci di forte lirismo che riequilibrano le parole sulla loro più profonda – e spesso non univoca – significazione. Emergono, così, le suggestioni degli “idioletti scientifici” della produzione del Bacchini (Pier Luigi Bacchini, Poesie 1954-2013, a cura di Alberto Bertoni, con biografia di Camillo Bacchini, Oscar Mondadori 2013) più tarda e iper-semantica. Parallelamente, nelle parti meno tecniche e più orfiche dei testi di Galuccio, si percepisce l’ispirazione di molta grande poesia anglo-americana dal costrutto denso di una sacralità visionaria ma completamente fondata sull’esperienza del reale (Larkin, Strand, Ashbery): “il corridoio sull’acqua/la santità di ciò che è orrendo/di questo è fatta l’esistenza/il variabile tessuto dell’attenzione”.

La condizione umana appare come protesa verso il buio (che non è una vera e propria oscurità ma una condizione di luci baluginanti), all’essere in disparte, all’intendere capovolto l’ordine delle cose attraverso un riscontro del corpo che diventa esso stesso intermittente, proprio come la stessa illuminazione che lo rende visibile e concreto: “il discorso del corpo si va interrompendo/in un fango bruno/siamo fatti per il buio/per l’estate che finisce/per i vetri che ci separano dalle cose”.

In un contesto letterario, nazionale e internazionale, denso di scenari distopici e talvolta apocalittici, la poesia di Galluccio, perfino nei versi più carichi di pathos, mostra una dimensione in cui un antichissimo passato e un futuro possibile si uniscono e danno origine a una riflessione sull’origine e sulle tendenze istintive della vita bio-etica dell’essere umano: “il passare di quelle ore di sospensione ci raccoglie nudi/come ritornati all’inizio del mondo”.

La capacità di comprensione e di interpretazione, da parte dell’individuo, dei movimenti sistemici del mondo, appare incerta e, probabilmente, vana ma può essere escatologica solo in un’ottica comune, collettiva: “questo nostro costruire assiduo/dell’unico occhio che ingloba e fa luce/sui nostri tanti universi separati”.

Nella sezione quarta, la facoltà di scienze dell’Università Federico II di Napoli, che si trova in “via Mezzocannone sedici”, diventa teatro di confidenze, promesse “borgesiane” ed esperimenti. L’uomo, perenne studente, apprende l’arte della fuga attraverso cui sperimentare come le anime, “nel condensare e resistere”, “si sommino o sommino i propri inversi/a seconda che si diramino dallo stesso nodo/oppure nascano una dalla fine dell’altra”. Ecco che il respiro collettivo continua a fare ingresso nel verso di Galluccio per il tramite dell’esperienza soggettiva, e non smette di scandagliare le dinamiche ontologiche dell’esistenza.

Perfino l’esecuzione di un test scientifico può condurre alla comprensione della simbologia intrinseca dei fenomeni fisici e, come accade sempre nella poesia di Galluccio, non è necessario che il lettore vada alla ricerca del singolo concetto cui non è aduso: il contesto linguistico consente una piena intuizione della funzione del tecnicismo adoperato dall’autore, cosicché dal significante si possa risalire con immediatezza al significato (unico o molteplice che sia): “la gabbia di Faraday//esperimento di elettrostatica e destino/dove si viene tentati//l’uomo si cimenta nell’esercizio di restare illeso”.

La dedica a Paul Celan nella poesia intitolata “laser” ricrea una continuità (o una compatibilità che si approssima alla correlazione) gnostico-semantica tra la sfera artistica e quella empirico-sperimentale: “un laser mentale di pensieri collimati//che scandisce e nomina le incrinature del mondo”.

Tutti gli sforzi dell’animale umano per capire e decriptare la realtà sembrano i tasselli della velleitaria scoperta di un sistema che, in fondo, è “inconcepibile”. Tali tentativi, però, fungono anche da segnali – probabilmente inconsapevoli- verso qualcuno che “in ascolto dal di fuori/senza l’ostacolo troppo denso dell’aria/potrebbe cogliere conversazioni confessioni/i nostri tramonti e la nostra fame”. Che si tratti di dialoghi tra specie viventi o con presenze trascendenti, è con la sua fine e con la sua fame che l’uomo può raccontare sé stesso.

Il dubbio sui soggetti di tale dialogo trova una chiave di lettura nell’ultima poesia della sezione. Da sempre, l’uomo è in ascolto di messaggi che provengono da dimensioni altre: allo stesso modo, la materia cosmica (per ipotesi scientifica ritenuta peraltro portatrice di vita sulla terra) riporta i suoi messaggi alle persone, “rimette in linea il già distorto/individua i punti dove si sta in attesa di notizie”.

La quinta sezione accende la disamina sul confronto tra mortalità e natura in cui intervengono gli aspetti sentimentali, memoriali, etici e mitici degli esseri senzienti in rapporto alle cose inanimate ma, spesso, più durevoli di quelle vitali: “il muoversi delle ore nei letti/regrediscono alle svolte millenarie//dalla formazione dei metalli/al fuoco e alle incisioni rupestri/che prendono il sopravvento nella visione”. I versi che, sin dall’inizio dell’opera, hanno rinunciato all’isostrofismo, alle maiuscole e a gran parte della punteggiatura, già a metà del percorso narrativo – che si costruisce con una precisa concatenazione logico-discorsiva tra le sezioni- si svolgono per improvvisi choc sintattici che immettono nella forma poetica la ragione intima del flusso di coscienza sapientemente ibridato dalla consapevolezza scientifica e dalla saggezza del dubbio filosofico-esistenzialista: “dove è stato duro il cammino/lì sai porre le domande adatte/ciascuno si scioglie in due/in quattro attendono risposte”.

La sesta sezione inizia con un censimento delle discipline fondanti dello scibile umano, operato attraverso nomi celebri attinenti ai singoli magisteri, e le riunisce in una percezione panica. Un testo focale si presenta nel suo diretto richiamo al titolo della silloge, al senso di sospensione della condizione umana, al mistero del vuoto che si sviluppa a partire dall’osservazione dei fenomeni in una posizione di separazione fittizia dalla cosmogonia. È necessario, adesso, rinunciare alle dimensioni conosciute: “dall’altra parte sugli argini in bilico/nelle battaglie//gli occhi si addensano sul cerchio/curiosi la dimensione dell’universo che manca”.

Nella settima sezione si assiste all’avvento della paura e della rabbia come motori potenti e imprescindibili per poter diventare piccoli paladini del contemporaneo: “la miseria ci ha toccati tramutandoci in eroi”. La sfera memoriale di un soggetto diventa la cassa risonanza della confusione tra ricordi e mitologie.

La parola, dopo essere stata esautorata del suo ruolo, ribadisce la posa instabile di chi la pronuncia ma, nonostante ciò, conserva un nucleo igneo di nostalgia che protegge dalla “angustia delle cose”. Un raccoglimento domestico incornicia la vista sull’esterno e consente lo sviluppo di un discorso relazionale tra soggetti che condividono lo stesso ambiente e gli stessi oggetti.

Tra le poesie di quest’opera, si possono rintracciare innumerevoli rimandi intertestuali che focalizzano le altrettante molteplici connessioni biologiche e spirituali tra ere storiche, tra persone, tra profili diversi di uno stesso fenomeno e tra fenomeni diversi di un medesimo aspetto della realtà: “nella parete si aprono spiragli di morte/tu appartieni alla poltrona/da dove guardi passivo//da dietro un raschiare di metallo su metallo/collisioni non volute/i rumori delle stoviglie”.

La presenza dei morti, in cui sembra riecheggiare l’ispirazione di certa poesia greca (Kavafis, Ritsos), fa da contraltare a quella dei vivi, compare a intervalli irregolari tra i testi, rappresenta un radicamento dell’umanità nella sua stessa storia.
Sono proprio la morte, la mortalità, il viaggio, il commiato, la “pausa infinita”, ad essere le travi topiche portanti dell’ottava sezione dell’opera: “il silenzio per molto tempo/è stato quello degli occhi sul letto della morte/una dissincronia tra il moto delle iridi e il respiro”.

La realtà appare frammentata e l’individuo procede a tentoni verso il proprio destino: “il precipizio sente che qualcosa sta giungendo?”. La ricerca di “fratellanza della materia” è non l’unione ma la comunione tra una lei e un lui improvvisamente protagonisti di un teatro corale di particolari del corpo trasfigurati in emozioni e commozioni (reali solo in quanto reciproche), anche se “non è possibile dire «tu»/il legame di corrispondenza/da uno a uno è compromesso/la percezione dell’ambiente si arrotola”.

Nella nona sezione, la lontananza dall’altro da sé, dall’amato o dall’amore parentale, è uno scavo nella voce che riporta alla percezione panica da cui si fugge e a cui si ritorna: “lo stupore insito nel paesaggio si materializza/ora in cellule un incontro di lembi di arbitrio/una sessualità nascente tra dimensioni distanti”. Ecco che il percorso gnoseologico ed ermeneutico dell’opera si conclude con un interrogativo sul desiderio umano, ultimo invincibile baluardo dell’esistenza.

La meraviglia di “tutto l’analfabeto del nostro mutismo” si suggella e si compie in una versificazione colta e arditamente sensibile che non rinuncia alla specificità del linguaggio tecnico-scientifico pur rimanendo rivolta a qualsiasi lettore si ponga in ascolto della “sua ultima vertigine”.

Rimane, infatti, alla parola poetica il compito di nominare, ancora una volta, il tremore che comprova la vita.

Gisella Blanco