Non è facile parlare di un libro che ancor prima di essere pubblicato si presenta come un successo annunciato, e non solo a livello nazionale. Sto parlando di Alfabeto dell’invisibile di Chiara De Luca, prefazione di Claudio Damiani, che andrà in stampa per la Samuele Editore il prossimo mese ma che ha già visto rincorrersi le seguenti anteprime:
su RaiNews, blog di Poesia di Luigia Sorrentino
su Atelier
su Nuova Provincia di Matteo Veronesi
su Vallejo&Co – in lingua spagnola
su Samgha – in lingua spagnola
oltre a un’anteprima sul blog di Cristián Basso Benelli sempre in lingua spagnola e una traduzione in inglese a cura di Gray Sutherland.
Un libro che non passa inosservato per il suo rigore formale, non rigido ma controllato, che riporta a certa musicalità novecentesca. Non a caso Matteo Veronesi scrive: Testi in cui vi è, certo – ma remota, privata di qualsiasi compiacimento decadente, di qualsiasi svenevolezza ed estenuazione estetizzante –, l’eco della città del silenzio dannunziana (o di quella «Ferrara la morta» di cui Corrado Govoni, ad emulazione della Bruges di Rodenbach, cercò, a inizio Novecento, di plasmare l’immagine e il mito); ma nei quali prevale un ritrovato respiro, una rinnovata ariosità, discorsività e umanità del canto, oltre, e non al di qua, di ogni tentazione di formalismo o d’intellettualismo chiusi in se stessi. Il che non indebolisce, ma semmai rafforza, la portata simbolica, la correlatività esistenziale dei luoghi, degli ambienti, dei nomi, e dei ricordi che essi, quasi proustianamente, richiamano e ridestano.
Un libro che inevitabilmente attinge alle caratteristiche biografiche dell’autrice. Dalla sua attività di traduttrice emerge questo continuo tono che non fa del mondo una poesia ma traduce il mondo con tutta quella complessità del lavoro che appunto il traduttore si trova ad affrontare. Sempre in bilico tra l’autore che si sta lavorando e l’inevitabile presenza, da modulare, della propria persona. Perchè se il sé deve in qualche modo scomparire nella massima misura nel lavoro di traduzione, è anche vero che questo non è assolutamente possibile e allora il traduttore si trova a chiedersi chi è lui in quell’opera, quanto di lui resta e soprattutto perchè resta. E in questo Chiara De Luca pare affrontare il mondo appunto chiedendosi quanto di sé resta nel mondo. Un mondo che viene osservato nella sua caratteristica più fisica: il paesaggio. Un paesaggio visto come in una strada fatta di corsa che è poi la grandissima passione dell’autrice (la corsa) ed è il suo modo di misurare gli elementi che incontra non solo nel paesaggio ma nella vita intera: Torno per l’abbraccio di chilometri di Mura / con le mani aperte che non ne sanno altre.
Un libro di sguardi e traduzioni fatte col corpo, grande protagonista del libro: la scuola che ha visto la mia liberazione / dagli altri in bagno per la ricreazione / molto prima che imparassi a deglutire / la nostalgia del mondo, la siccità d’amore. Un corpo che inevitabilmente percorre altri corpi e in primis quelli naturali, quasi punti d’appoggio per la storia stessa dell’essere umano che li incontra: – il cuore è germoglio da un albero morto / residuo insospettato di uno schianto . Ed è proprio quest’ultimo termine, squisitamente poetico seppure d’uso anche comune, schianto, che in qualche modo svela il sentimento caratterizzante la prima sezione della raccolta: Luoghi del ritorno. Non a caso si legge: Corri forte lepre dov’è inutile la fuga / in quest’invernale primavera seminuda , dove la fuga pare essere il residuo dello schianto di poche pagine prima, della nostalgia succitata. Il corpo pare essere un qualcosa di rimasto indietro nella corsa, il sé un qualcosa di smarrito qualche vita fa. Poi aprendosi a una soluzione sostanzialmente paradossale per un’autrice (e qui attingo a una conversazione fatta con Chiara) che per certi aspetti rifiuta la poesia d’amore: Quanto arrivi tu è possibile tutto / la rincorsa in slancio e dell’amore il tuffo. Un amore che tanto assomiglia alla pudica dignità di una persona che ha imparato ad accettare l’arto mutilato, il dolore che ancora ne resta, pur chiedendosi quando l’ha perso, quando è iniziato, chi era prima del dolore, quanto il mondo attorno si accorge della mancanza di quella parte di mondo, di quella parte di corpo invisibile.
La seconda sezione, che personalmente trovo la più squisita nell’architettura di Alfabeto dell’invisibile, si intitola Stazioni e riporta alla corsa sublimandola in viaggio, a corsa espansa. Altissima ed emblematica la prima poesia che ha come incipit: Ti siano pudiche le stelle, e come chiusa: alba primordiale è buio / l’utero di quel che non ritorna. Un pudore, quella dignità della poetessa poc’anzi descritta, che in questa sezione si immerge in latitudini e longitudini di pioggia, protagonista importante di questa parte del volume: La pioggia è una favola prima di dormire. Il tono resta controllato, mai esasperato, anche nei testi più nostalgici: compie sette anni il nostro addio e non finisce. E sono proprio questi frammenti di quotidianità tradotta che trovano la loro sublimazione nella natura che aiuta, quasi come un dizionario bilingue, a trovare riferimenti all’essere e al dire: bianche si squarciano le vene, / gocciano neve […] naufragati nelle risa di pioggia come un bene. Dove l’autrice sta con la fronte alta per non perdere lo sguardo / l’uno nell’anima dell’altro a ribadire la sentimentale corporeità della traduzione (poesia) stessa.
Fa seguito una sezione intitolata Volti che espande ancor di più lo sguardo a storie, esperienze di persone, con diversi innesti di dialoghi non esplicativi ma poetici essi stessi: «Io non l’ho voluto questo figlio», / dici a bruciapelo e guardi sorridendo / lui che dalla porta ti sorride. Il sé a un certo punto però riemerge (anche se non era mai stato abbandonato del tutto) con la medesima modalità di espressione del mondo e delle storie a cui si è arrivati: «Sei fortunata tu che non sei sola», / dici sfiorando il muso del mio cane, non rinunciando ad aneddoti personali: Guardando la chitarra appesa sulla spalla / penso forse anch’io riprenderei a suonarla. La nostalgia mai decadente ma anzi come detto pudica, controllata anche musicalmente, che impernia l’intero volume trova poi un’ulteriore conferma: che si può lasciare andare via chiunque / senza batter ciglio né capire. Un ritorno inevitabile per chi affrontando i volti delle storie si trova a confessare: Per anni scontando la tua storia / come un delitto non commesso.
L’ultima sezione, Mare, che fin dal titolo prelude a un’espansione (dai ritorni alle stazioni ai volti) che vuole implicare un infinito dello sguardo (l’orizzonte) in una distesa sconfinata, ritorna invece sempre più a fondo nel sé della poetessa/traduttrice in un percorso che alla fine risulta assolutamente logico e lineare, anzi armonico e in qualche modo caratterizzato da una sua delicatezza: Amore è questo guscio duro che la vita / da tempo ha consegnato alla sua assenza / ma quando lo ascolti ricanta la distanza. Il riferimento personale resta sempre legato a dei non detti, a delle assenze controverse: Io vorrei potere come le onde / sfiorare la sabbia che ti assorbe, / essere goccia respinta dalle rocce, / non tutta quest’acqua così ferma / stagna in una rada senza sponde. Dove la salvezza, l’amore, il ritorno stesso, trova il suo apice in cinque versi precisi: Adesso io ricordo te come un gigante / che in braccio mi portava lievemente / “dove non si tocca” per lanciami / in volo e riacciuffarmi appena prima / che cadessi in acqua per salvarmi.
Un libro da leggere con l’attenzione dell’orologiaio che osserva i meccanismi dell’orologio meccanico, complesso ma regolato, dove anche gli spazi di vuoto hanno un loro significato e utilizzo nella fisicità della struttura. Proprio come fa l’autrice in chiusura del libro, rivolgendosi a un sé che poeticamente sono tutti: l’avresti detto sott’acqua / che l’acqua ti avrebbe restituita / e nell’inverno ti saresti trovata / da fuori a guardarla.
A Ferrara
Dopo vent’anni ti ritorno
a guardare da fuori dritto nel cuore
da viaggiatore che più non cerca
da tempo alcun riferimento, madre
tanto lieve distratta e inadempiente,
eternamente infante, mia Ferrara
non una ruga sul volto soltanto
i tuoi bar sono cresciuti e i locali
aperti all’esercito fermo nel tempo
dei giovani in divisa per l’aperitivo
iscritti d’ufficio alle “compa” che a sera
si trovano al parcheggio dell’Iper a bruciare
metà della serata nel decidere che fare.
Torno per l’abbraccio di chilometri di Mura
con le mani aperte che non ne sanno altre
e gli occhi tra gli occhi dei dissimili distanti;
per il muschio fradicio e l’alloro dei giardini
il manto di silenzio che apre i giorni festivi,
per il canto stonato dei colombi che ricorda
il ritmo sincopato del verso quando inciampa,
per la gaia ostinazione di antiche campane
che al dovere richiamano l’ultimo fedele,
per il saluto dei vecchi al davanzale,
gli screzi delle donne al mercato di quartiere,
per i negozianti che di me sanno gli orari,
tutto ciò che conta, il nome dei miei cani,
per la quiete da dopocena assonnato
quando alle otto scatta il coprifuoco,
per lo slalom nelle strade del centro tra le bici,
gli incroci di volti e i balconi fatiscenti,
i vicoli scavati come tunnel tra i palazzi,
i fregi sui portoni e le pallide iscrizioni,
per la muta sconfitta di antiche prigioni.
Torno a sentirmi raccontare dalle pietre,
dall’albero grande dove seppellivo
il vecchio pesce rosso e il fratello uccellino,
torno a sarchiare la nebbia per scoprire
il volto dei ricordi che non vogliono svanire
e restano nascosti come spettri per restare,
mentre sfumano nel buio i luoghi del calvario
trasferito a Cona l’ospedale è ormai lontano
somiglia adesso a un college americano
la scuola che ha visto la mia liberazione
dagli altri in bagno per la ricreazione
molto prima che imparassi a deglutire
la nostalgia del mondo, la siccità d’amore.
Parco Massari, III
È questo nostro sordo enumerare i giorni
giocando d’anticipo su implacabili ritorni
che ci fa vestire d’inverno e soffocare
quando a fine ottobre ancora impera il sole,
l’albero invece non teme di spogliarsi
lui che nel vento lascia cadere
le sue foglie per non vederle finire.
Ti siano pudiche le stelle
erose da pupille rifugiate e arrese
all’esistere distante di speranze,
perché non abbia nome questa notte
di volti e vele rotte strade in anni
luce di sentenze, sia invincibile,
già stata – accesa – poi – precipitata
al passo del tempo inavvenuto,
alba primordiale è buio
l’utero di quel che non ritorna
La pioggia è una favola prima di dormire
che a sorpresa stanotte sommessa ci racconta,
insistentemente ci riporta
il sordo pulsare del sangue in quelle sere
a cercare di smorzare la sua corsa nelle vene
perché non ci stanassero gli spiriti invidiosi
tra gli alberi nel buio dell’amore,
passo dopo passo discosti fianco a fianco
con la fronte alta per non perdere lo sguardo
l’uno nell’anima dell’altro.
Potesse la pioggia non finire, io restare
per sempre al caldo in attesa di qualcosa
di eclatante, un lampo dirompente:
un amico che ti chiami per niente,
uno sconosciuto che non legga
in te soltanto quello che gli serve,
un pianto che non enunci le assenze
un silenzio che non pronunci sentenze.
Rapida riapre la stagione del camino
abbiamo proseguito tutta l’estate
a cogliere legna nelle nostre passeggiate
come da bambini more per le marmellate.
Il legno più grande è quello naufragato
in riva al mare in un sol giorno d’incanto.
Sarà quello a dare il fuoco più ostinato
come l’amore preservato in un canto
in attesa dell’incendio dello sguardo.
Amore è questo guscio duro che la vita
da tempo ha consegnato alla sua assenza
ma quando lo ascolti ricanta la distanza
a mio padre
I gabbiani oggi orfani del sole
piangono di fame sul litorale,
le onde hanno spazzato i resti del banchetto
in questo loro strenuo mietere e ridare.
Adesso io ricordo te come un gigante
che in braccio mi portava lievemente
“dove non si tocca” per lanciami
in volo e riacciuffarmi appena prima
che cadessi in acqua per salvarmi