Michele Paoletti intervista Alessandro Fo
“Il tentativo era accostarsi al divino non dalla devozione o dalla riflessione teologica, ma da quaggiù, sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà, nella persuasione che, generalmente parlando, specificità e forse compito della poesia sia precisamente cogliere e svelare, nella più favorevole posa, momenti alti, significativi e (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone”.
Questo afferma Alessandro Fo nell’Appunto, inserito in coda alla raccolta Mancanze (Einaudi, 2014) e nei testi che presentiamo oggi continua la sua ricerca della meraviglia nel quotidiano. La sua poesia, attraverso l’osservazione di accadimenti spesso ordinari (l’ennesimo passaggio dell’elicottero dei trapianti sul tetto di casa, una macchia di gelato su una camicetta, la necessità di riparare la batteria dell’auto) si intensifica, arricchendosi di significati più profondi, domande che il poeta si pone sulla vita e sugli uomini. Così uno sguardo sul calendario dell’officina è un’occasione per interrogarsi sui tranelli che ci tendiamo per poter imbrigliare il tempo, anche per un solo attimo. Ma le foto stesse, trattenendo le immagini in una sorta di infinito presente,deperiscono, scoloriscono, si accartocciano e diventano un pretesto per interrogarsi sul quando, sulla fine, ma anche sul quanto (…Se mai, pensiamo alla nostra sepoltura / con il suo piccolo eterno monumento… / Ma eterno quanto.)Tuttavia non c’è ripiegamento, o autocommiserazione, piuttosto una consapevolezza che la ricchezza dell’uomo è nascosta nelle pieghe della vita stessa.
In un saggio su Mancanze pubblicato sulla rivista on line formavera, Andrea Lombardi afferma che “il principio della mancanza è anche un’idea di poesia […] ogni poesia, propriamente, nasce da una mancanza: di ciò che della vita non si riesce a cogliere e a comprendere”. È così che nascono le tue poesie?
Credo che si possa dire che sì, nascono anche da una «mancanza», ma non tanto nel senso di «ciò che della vita non si riesce a cogliere e a comprendere» quanto dal desiderio di colmare il vuoto che ci separa da quel cogliere e da quella comprensione. Ma – almeno per me, e per le cose su cui vado poi a scrivere – alla sensazione di mancanza si accompagna la persuasione che forse, con un colpo di genio, con un briciolo di ispirazione, se ci verrà concessa (perché si tratta di qualcosa che non è interamente sotto un diretto e razionale controllo), quella distanza potrà essere colmata. E la mancanza, se non altro, lenita. Infatti a volte la si può interamente colmare, se la felicità di un’idea ci aiuta a raggiungere e capire – cogliere? possedere? – il nostro oggetto. In altri casi no: come con la scomparsa di una persona cara, o la fine di una storia d’amore divenuta ormai irrecuperabile.
La mancanza è anche una forma di urgenza?
Forse, nel senso in cui la intendevo nella precedente risposta, sì. Che poi è lo stesso senso che incontriamo nel Cielo sopra Berlino di Peter Handkee Wim Wenders, quando l’angelo divenuto umano contempla sconsolato lo spiazzo lasciato deserto da un circo, il circo in cui, se non ricordo male, si esibiva la trapezista da lui amata (è il capitolo intitolato Compañero). Qualcuno allora gli chiede «Che cos’hai?». E lui risponde «Mangel» (Mancanza). In un simile caso di «mancanza» è naturale che la mancanza si faccia anche «urgenza» di riconquistare, in qualche modo, un ‘paradiso perduto’.
Maria Grazia Calandrone afferma che “la poesia si serve di oggetti di uso quotidiano e comune (le parole), per originare bellezza. Ed è proprio questo suo sommo non servire a decretarne il valore.” (fonte zestletteraturasostenibile.it, intervista a cura di A. Canzian). Sei d’accordo?
Sono abbastanza d’accordo. Ci sarebbe poi da commentare il ruolo del verbo «servire». È la vecchia domanda che ogni letterato si è sentito prima o poi formulare dai ‘chiusi fuori’: a che servono, concretamente, il greco,il latino? la poesia? l’arte? È una domanda figlia dello spirito utilitaristico, gretto, piccino che domina non dico il nostro tempo, ma proprio la sostanza più bassa dell’essere umano. Nobili figure – che so, Gesù di Nazaret, Gandhi, Maria Teresa di Calcutta, ma anche ‘solo’ Virgilio o Dante o Shakespeare – trascorrono ‘invano’, senza alcuna utilità pratica, per la gente che ragiona in simili termini. Ma «sono serviti» e «servono» di più loro all’umanità – al puro e semplice «essere migliori» di tutti coloro che stanno intorno e danno loro in qualche modo retta– rispetto a quanto non serva qualsiasi istituzione o personaggio infrastrutturale che consenta, a questi «persuasi» di sé, un profitto o un vantaggio d’ordine materiale. Anche se loro stessi non se ne rendono conto.
Da una recente tua intervista per Il Tirreno parli di poetichese come causa del male che affligge la poesia italiana. Si pubblica tanta, forse troppa, poesia e se ne legge poca e i primi a non leggere sono proprio poeti e letterati.Mi piacerebbe approfondire.
Diciamo che il «poetichese» è il fraintendimento (ingenuo, ma compiaciuto di sé) di cosa possa essere la poesia. Quella del «poeta» è una strana condizione. Da un lato si avverte un certo disprezzo per la già ricordata «inutilità» del soggetto, e si tende a inquadrare il poeta come una persona fragile e debole, che vuole affliggere il mondo con le sue inutili lagne. Dall’altro, invece, molti aspirano a essere riconosciuti come «poeta», il nome, per dirla ancora e sempre con Dante, «che più dura e più onora». Il problema è che chi legittimamente aspira ad esprimersi, a farsi ascoltare, e a farlo con il mezzo dei versi, solitamente non coglie l’ovvia verità che per raggiungere niente meno che un «nome che più dura e più onora» non basta deciderlo, prendere carta e penna, e scrivere con appassionata buona volontà la prima cosa che ‘uno sente’. È naturale che – come per comporre una sinfonia o dare una forma artisticamente plausibile a un blocco di marmo – non si può improvvisare, ma si deve seguire un lungo e impegnativo percorso di formazione, che insegni cosa va fatto e (soprattutto) cosa va assolutamente evitato, che addestri a incanalare con sapienza ciò che vogliamo esprimere, affinché non venga spappolato dal banale e dissolto nell’irrilevante e nell’inutile.
Se noi prendiamo l’irrilevante, il banale e l’inutile e gli diamo una veste pomposa e goffamente imitativa della voce e dei modi dei grandi e della tradizione (o di quello che pensiamo di avere capito di loro), otteniamo il poetichese: la penosa parodia di ciò che banale e inutile non è, in qualche caso agghindata di imparaticcio (rubo la bella espressione a Gadda), e sempre vocata al fiasco.
Il numero di coloro che invece amano davvero l’espressione poetica, la sentono come un’esigenza profonda, la studiano negli altri, e, attraversando e contemplando questa selva di sequoie, cercano con pazienza e dedizione di trovare l’angolo migliore per fare prosperare un personale alberello non troppo indegno di tanta compagnia, è relativamente scarso. Infinitamente maggiore è il numero di coloro che si credono nati poeti, e sono invece calligrafi del poetichese. Ma la pressione di questa massa non è di fatto arginabile, e allora ecco che questa massa si organizza, attiva un giro di reciproci riconoscimenti, di premi, coppe, pubblicazioni, riviste, mobilitazioni di prefatori e recensori: e a combinare qualcosa pure arriva. Niente di qualitativo, in genere, ma, in compenso, un panorama quantitativamente ingente, chiuso in sé e di sé abbastanza soddisfatto. Le conseguenze possono anche essere perniciose, perché chi non se ne intende può più facilmente incontrare questo tipo di universo poetico, che non la sfera in cui tutto ciò non è tollerabile – sfera in cui peraltro coloro che sono dotati di vocazione, sensibilità eformazione, penano comunque il giusto per farsi riconoscere e ascoltare.
Può avvenire dunque che nella percezione corrente il mondo dei «poeti» finisca a volte per apparire più facilmente quello dei dilettanti spontaneisti e spesso alieni da ogni ricerca formale, piuttosto che non quello di chi cerca di muoversi nel solco di un’arte più consapevole. L’idea corrente di ciò che è poetico finisce così per pendere pericolosamente proprio verso il poetichese, un’insulsa koiné ricavata – quando vi sia dietro una qualche lettura – shakerando i soliti Prevert, Elouard, Neruda e compagnia,in una dimensione che oscilla fra il bacio perugina e il cascame del peggior tritume da canzonetta. Se così non fosse, non sentiremmo continuamente proporre il confronto fra la poesia e la canzone d’autore, nel quale la prima è percepita come inutile complicazione, e la seconda insignita del prestigio di ciò che più facilmente risulta fruibile e ‘tocca il cuore’. Ma una canzonetta la può davvero scrivere anche un dilettante estemporaneo, che può riuscire perfino (forse, talora) a dribblare almeno le più tragicomiche insidie del cattivo gusto. Mentre una poesia vera, e degna del nome, direi di no.Davvero Dante Alighieri è comparabile con Francesco Guccini, davvero Leopardi con Antonello Venditti? So anch’io che alcuni testi di Lucio Dalla, Paolo Conte, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini e perfino Mogol, per fare solo alcuni esempi della mia generazione, possono a volte toccare la poesia. Ma, molto più di frequente, la forma facile della canzone addestra i giovani (e meno giovani) a una facilità troppo vicina al banale, e finisce per formare un gusto banalizzante assai più di quanto non possa fungere da propulsore verso un gusto più fine e orizzonti più alti.
Tutto ciò, comunque, non è ancora il vero problema della poesia italiana oggi. Il vero problema è la scarsità di occasioni per chi pure avrebbe valore, la scarsità di collane prestigiose e diffuse che siano anche aperte a una ricerca autentica, alla scommessa su voci nuove, a una politica culturale disinteressata e puramente orientata a dare spazio a chi abbia qualcosa da dire e lo dica alla luce del Bello. Pochi sono i poeti o i critici pronti a spendersi con generosità per far conoscere qualcuno in cui credano. Ancora meno gli editori, anche per l’ovvia ragione che l’editore deve fare i conti con problemi di costi e di vendite, in una società sempre più proiettata verso oggetti di tutt’altra natura. Non so se un giorno verranno tempi migliori; nutrire fiducia che vengano significherebbe nutrire fiducia nel genere umano, impresa oggettivamente ardua. Diciamo che si può contare su uno sparuto gruppo di generosi e resistenti che cercherà sempre e comunque di promuovere questi orizzonti, in cui crede. Una minoranza operosa. Più di così è difficile sperare. Ma è pur sempre qualcosa.
Doni
Nella notte d’estate appena tiepida,
ma quanto basta a aprire la finestra
sul silenzio di stanze e luci fievoli,
anche se è tardi d’improvviso un’elica
fa la sua rotta verso l’eliporto.
Non ha orari il trapianto.
E in volo nel ricordo
c’è casa tua sulla linea del «Pègaso».
Se per caso ne avvertivi l’elica
balzavi su e correvi alla finestra
presa da affanno e improvviso sconforto.
E anche se tacevi
sapevo che avvenire avevi in mente,
disposto a testamento.
«Io che, viva, non servivo a niente,
servirò a qualche cosa almeno morta».
Caffè nel pomeriggio
La nivea camicetta
della nuova ragazza
si è macchiata di fragola.
È bella, e non dà spago,
fra un panino e una tazza,
al cliente che, cauto
o impudente, intercetta
le sue manovre, in cerca
di attenzione e contatto.
Sorride, ma ugualmente,
assorta e indifferente,
la coda di cavallo
galoppa lungo il banco.
E così (farò male?)
l’avverto (dubitando)
della piccola chiazza
finita sotto il seno.
«L’ho messa stamattina,
e già è ridotta a niente»…
Raccoglie una spugnetta,
la bagna, trasparente
si fa la camicetta.
Potrebbe approfittarne,
da gentile a invadente,
uno sguardo sleale.
Voltarsi, e salutare.
(Non c’è più già al mattino.
Sta aspettando un bambino).
Dei sepolcri, again
…vado, giro la chiave, tossisce
la vecchia auto. Non parte. Vicino
c’è l’elettrauto.
Ci arrivo che entra un altro,
cambia la batteria.
Sarà il freddo. Mi riparo
nel cuore dell’officina, guardo.
Macchinari
del passato millennio
da archeologia industriale,
meravigliosi…
e tutto come deve:
trascurato, lercio, provvisorio,
funzionale a uno sbrigativo utile,
con le pin-up di rigore.
Già, le pin-up…
Completamente stinte, piantate
sopra un muro da quasi sessant’anni…
«Le aveva già nella vecchia officina»
mi precisa l’altro cliente.
E questa signorina,
dunque, la canottiera tirata sopra il seno
e nient’altro che scarpe Anni Cinquanta,
veleggerà adesso per gli ottant’anni,
sgualcita forse più della sua foto.
Ma la cosa incredibile è quel chiodo
(si potrà dire mai dov’è fissato?)
con intorno un’areola di cartone
– che non si sbrecci il muro, o che si tenga
il poster meglio fissato al supporto… O
per censura, o sadismo, o puro spirito
di geometria (perché lì passa il centro
di tutto il poster, se ne vede la piega,
ancora,
pur dopo questa montagna di tempo)?
Le imperscrutabili azioni degli uomini…
Questa ragazza già bella, ora stinta,
sarà tuttora viva? Una distinta
vecchina, o una creatura
degna di compianto?
O una foto
(oh differente) su un marmo al camposanto?
Forse è la batteria, o questa grotta del tempo,
ma mi proietto a quando sarò morto…
…Se mai, pensiamo alla nostra sepoltura
con il suo piccolo eterno monumento…
Ma eterno quanto. Viene presto rimossa,
sostituita. Ho visto vecchie pietre,
già lapidi, illeggibili, spezzate
(«È morta – fa l’elettrauto –, va sostituita»),
certo in frantumi e sparse anche le ossa
che ricopriva, o finite in un bidone
con i fiori marciti, e le corone
su cui la pioggia ha dilavato colore,
nome, mittenti, più rapidamente
di un volto di pin-up da un elettrauto.
Il vecchio onesto elettrauto sempre al chiodo
ha terminato. Batteria nuova. Riparto.