Temporali – Cristiano Poletti

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Temporali, Cristiano Poletti (Marcos Y Marcos 2019).

Temporali è il nuovo lavoro poetico di uno dei più promettenti autori contemporanei che abbiamo in Italia. Non solo per l’acquisita ed evidente capacità stilistica di costruire un verso non di rado impeccabile, ma soprattutto per la capacità di variarlo nella medesima opera costruendo un percorso dinamico e variegato.

Cristiano Poletti infatti passa dal verso esteso (spesso endecasillabo) al verso breve, dal testo compatto alle terzine a quasi una poesia ininterrotta senza eccessi per arrivare addirittura a prose poetiche (che tanto piacciono ai poeti contemporanei) mantenendo comunque un timbro chiaro, riconoscibile, una voce nettamente distinguibile e identificabile.

Questo a livello d’opera nel suo complesso, ma la medesima cosa si potrebbe dire dei singoli testi dove il metro viene variato e appoggiato ad allitterazioni e assonanze ben calibrate, studiate, arricchite dall’uso di ripetizioni che (chi scrive poesia lo sa bene) rappresentano sempre un rischio altissimo:

 
 
Fuga, o ritorno
 
Tu torni dove tornano nel vento
di tutti i nostri amori le figure
e i fiori. O tu non torni,
sapranno riferire. In quale luce
 
tu, voce, stai avvicinandoti muta
alla fonte del fiato? Lì sei nata,
formi da poco parole e in natura
di buio cresci, e non muori o divieni,
tu taci sulla strada.
 
La sfiori non il vento
al limite del fiato
la voce dei tuoi giorni,
la ferma solitudine dei giorni.
 
 
 
 
Voci
 
Un grande pomeriggio
arrivano col pane, mezzo pane.
Tutto il tavolo è in ordine. Da tempo
li aspettavamo. Qui
per una strana forma
di contrappasso troveranno cena
e caldo. E intanto parlano, ci dicono
di un’ombra, l’ombra scesa, che scendeva
sempre nel centro del cucchiaio.
Il cavallo del tempo è vuoto e noi
vogliamo esser riempiti.
L’oro allora si versa nella voce e l’ombra
si traduce in luce, in un fiato
venuto su dal fondo.
Forma dell’ombra, o luce, tu nell’oro
sola t’intendi, e in questa ellissi
temporale che è lotta per la vita
che è sempre e si tramanda
liberaci tu, salvaci.
 
 

All’attenzione formale Poletti fa corrispondere una stratificazione di piani di lettura a livello contenutistico (privato, sociale, storico) che solo apparentemente si affastellano sia nell’insieme sia nel medesimo testo (Le parole prese singolarmente all’interno del dettato poetico, così come talvolta i singoli versi, non sono sempre di immediata comprensione, cioè non rispondono a un logico accostamento di senso, tanto che viene da chiedersi quale sia l’intento del poeta. Si potrebbe rimanere stupiti da alcune scelte linguistiche, da una sorta di inesattezza latente, dice Luisa Debenedetti in una recensione su librierecensioni.com). In realtà gravitano come satelliti attorno a delle immagini/metafore chiave ben definite, quasi pilastri d’appoggio del rapporto di Poletti col mondo: Dio, i temporali, il tempo.

Per quanto riguarda il concetto di Dio leggiamo velocemente i testi dove si fa riferimento sia esplicitamente a Dio sia in senso più lato alla religione e alla fede:

 
 
Corridoio, con due citazioni
 
Un discorso religioso, ma niente fantasie.
 
In casa, una volta entrato, ho trovato
una perdita. Ora
cerco il suo luogo nascosto.
 
Con le mani cerco, mani che hanno pensato
e hanno toccato, hanno preso.
 
Forse trovano la verità: non
nel passato, dov’è già scritta.
Nemmeno nel futuro, impossibile,
il futuro è un luogo vuoto.
 
E trema con le mani un’ansia
per niente intelligente.
 
Nel quadro di una casa dentro l’aria
adesso rientro: è il nostro
Occidente.
 
Il respiro tornerà come all’inizio,
dove c’erano i talenti,
prima delle scale,
della porta, del corridoio.
 
 
 
 
Di una poesia, andandosene
 
Vi divorò, la fede. In stracci e verbi
eravate e stavate per dire
qualcosa
quando la riedizione del muto vi richiamò
a gran voce. Poeti,
è di un deserto questa storia…
 
Senza scrivere sapevate,
già avevate amato per sempre. Altrove
è un’eternità
il lavoro dell’acqua, dare al prato l’ortica,
all’uomo il muschio che bacia la pietra.
 
 
 
 
Fine partita
 
Una bandiera lasciata sul campo,
abbandonata, a fine partita.
Il tifoso l’avrà dimenticata
in un eccesso di tristezza, o di gioia.
 
Nell’episodio pensavo a me
come oggetto smarrito della storia.
 
O forse è un’altra la metafora che occorre
per la stessa ragione, o religione,
ma in un ritmo diverso:
le infinite vasche
che ora nuoto e vuoto
polmoni e tossisco
sotto sopra avanti
indietro tossisco
la mia storia e tutta
la vita immortale.
 
 
 
 
Otto anni
 
Questa terra capace
tra l’autostrada e il suo diesis.
La mattina, la brina, sono solo
pochi anni a dividerci.
Verso Trieste ora
la fede continua: amerai ancora,
dice la strada, sarai ricambiato.
E adesso
dentro un tremolio dell’aria
ci chiediamo cosa mangeremo.
La torta annunciata e altro
ancora. Intorno i libri,
una sera che ha un nome.
Da tanto non piove.
Ma un temporale ascolta
si prepara nell’aria, cedono
l’alta pressione e gli anni.
Ti chiamo. Chiama.
 
 
 
 
Dove
 
Fiume e nebbia, nostro inverno
che fai
scuri i segreti e i rami.
Questa pianura, la nostra
fine, fiume e vita caduti qui, su un viso.
 
Finirà nella
religione di un giorno solamente
il disegno non vano.
 
E il campo
tutto è un falsopiano. Sotto il velo
nelle ragioni del bianco del cielo.
 
 
 
 
Un cerchio
 
Quest’acqua è così, è un cerchio,
e tu devi girarci dentro.
Intorno cornici, uomini e terra
con tutto il tempo che hanno
nel piano di Dio.
Entro in questo cerchio anch’io
e senza contare seguo
le volontà.
 
In uno strappo dei polmoni
non si tocca.
 
 
 
 
La laveria
 
Vado in un luogo risolto dal tempo.
Sopra muri
diroccati
muschi e altri procedimenti dell’acqua, sorgenti
in questa mente come da un’età dei libri.
Come in quel libro dov’è scritto
di ricordi in letargo è pieno il corpo
accade anche qui.
Tra le elementari schiave di noi,
cose,
vedo nella loro la nostra
piccolissima vita.
Nel sempre di un sentiero e adesso
nel grigio di uno scheletro,
con i vuoti, gli a capo, l’eco
di quanto fu.
Amore, vieni con me in questa pagina,
fa’ di questo
un luogo risolto dal tempo,
e di Dio e di me
tra le ossa il corpo d’aria.
 
 
 
 
Per fede
 
Prima di te e di me.
Fu lo stesso
tra passione e croce: dirci
trasformatevi, forza, continuate,
continua a riformarsi il grande
sapere, sentire nei nervi
che è bene cadere,
che il chiodo è fisso al muro della vita.
 
Ed è qui,
è anche questo,
fin qui si sale.
 
L’uomo è in queste stazioni
l’immagine di Dio, che cade
dentro i corpi, le orografie, i mondi,
le rappresentazioni.
 
 
 
 
Dove arriverete
 
I.
 
Nel silenzio di tutti
prendo parola io,
lo Stato.
Basta con il cielo, la fede, la fede
nel cielo è annientata. Non Dio per noi
decidiamo noi.
 
Noi
lungo le torri di guardia osservammo
varchi riempiti di carne, osservammo
l’andirivieni di donne e di servi.
Come in un sogno, e nel suo disordine
in lontananza un lupo e i cavalieri
che si avvicinavano mentre urlava
il vento.
 
 

Come si evince dalla lettura il Dio, e in senso più lato la religione e la fede, non sono in Poletti un riferimento a un’identità specifica quanto una giustificazione possibile di ciò che è stato e che è. Non a caso infatti viene citata, in epigrafe a un testo, una frase molto emblematica di Milo De Angelis: Ciò che è accaduto è imprevedibile quanto ciò che avverrà.

Perché in Poletti il problema (e la cifra della sua poesia, o una delle cifre) è proprio il doversi rapportare con una realtà accaduta e in fieri. Sia che si parli a livello personale sia che si parli a livello sociale, laddove entrano in gioco dinamiche più complesse e ampie ripetto a quelle private.

Particolarmente emblematici, in questo, diventano i versi:

 
 
Forse trovano la verità: non
nel passato, dov’è già scritta.
Nemmeno nel futuro, impossibile,
il futuro è un luogo vuoto.
 
[…]  
Il respiro tornerà come all’inizio,
dove c’erano i talenti,
prima delle scale,
della porta, del corridoio.
 
[…]  
Nel silenzio di tutti
prendo parola io,
lo Stato.
Basta con il cielo, la fede, la fede
nel cielo è annientata. Non Dio per noi
decidiamo noi.
 
 

Più che provvidenza il Dio di Poletti, la religione inevitabilmente correlata ad esso e la fede che altrettanto inevitabilmente deve esistere come cornice di esso, sono un’alterità che ne giustifica l’osservazione, e la perplessità. Perché quella di Poletti non è mai un’analisi precisa ma è più una contemplazione laica della possibilità religiosa (che spesso si confonde con una necessità non religiosa ma esistenziale) pur di fronte alla consapevolezza dell’abisso del presente e del futuro.

Dove il senso più chiaro (e che rappresenta uno dei succitati strati contenutistici) è proprio l’attesa più o meno arresa e modulata attraverso echi letterari sottilmente evocati:

 
 
Aprile
 
Quinto piano in pianura: l’orizzonte
puntato contro, come un’arma.
Un aprile così limpido. Sembra
 
cambino altitudine le montagne
a vederle, a indicarle dal balcone.
E con le montagne gli anni, incompiuti.
 
Guarda, in fondo
una più alta delle altre, ecco, è lo sparo.
La neve ancora, in lontananza. Sporca,
 
non normalmente neve, ma una mano
di bianco slavato, un altare, un fiato,
qualcosa che si spezza.
 
Come un’intermittenza: ritornare
è solo un’insistenza, sulle perdite.
E ormai è spezzato il respiro,
 
che voci
torneranno
da dove, da che valle, oltre lo sparo?
 
Ma il cuore, l’entusiasmo
preme al di là del profumo del glicine,
oltre la Russia e il viola dei lillà.
 
Non serve aver guardato.
Il bambino non calcola, non resta.
È già via, lontano,
 
il silenzio lo vuole, l’ombra sua
chiama il suo nome, con voce potente.
Sente
 
come in origine cantava
ed era Oriente, origine, orizzonte.
Anche attraverso questo, la grazia.
 
Solo attraverso
questo,
essere soli.
 
 

In questo testo ad esempio non possiamo non ricordare l’Aprile è il mese più crudele eliotiano quanto lo sparo caproniano verso o l’occhio (il gelo) di Dio? del franco cacciatore. In un continuo spostarsi tra il piano privato e quello sociale consapevole della storia. Tommaso Di Dio, a proposito di questo, in una sua recensione al libro ha scritto:

 

È in questo senso che la parola poetica di Poletti ha a che fare con la preghiera. Oggi che nel discorso pubblico la preghiera è oggetto di fraintendimento, se non di continuo sacrilegio, alcuni poeti forse sono i soli che continuano a pregare, ovvero a fare del linguaggio un sacrificio. […] Non si tratta qui di una poesia “devota”, non ha da difendere nessun Dio Poletti, figurarsi; ma questa è una poesia che ha continuamente a che fare con l’attesa di una voce. […] Attendere la voce è predisporsi ad una scrittura che ha come fondamenta l’ascolto: non di sé, ma di ciò che esula, che fuori orbita, che transita, entrando e uscendo, aprendo e chiudendo il giro della mente. Quella di Poletti è una poesia che è dappertutto un’invocazione di voci: si chiede alle voci di raggiungere la pagina, di farsi presenti, di darsi a vedere, di sedersi qui con i mortali a mangiare. E contemporaneamente, proprio in virtù di questo ascolto, la poesia di Poletti è misura di un rapporto infinito fra il sussulto feriale e un altrove immortale, glaciale, spropositato.
(dal Blog di Poesia di Luigia Sorrentino – Rai)

 
 

Le altre due immagini/metafore fondamentali del libro sono riportabili al titolo: Temporali. Ed è lo stesso Poletti a suggerirne il doppio significato:

 
 
Voci
 
Un grande pomeriggio
arrivano col pane, mezzo pane.
Tutto il tavolo è in ordine. Da tempo
li aspettavamo. Qui
per una strana forma
di contrappasso troveranno cena
e caldo. E intanto parlano, ci dicono
di un’ombra, l’ombra scesa, che scendeva
sempre nel centro del cucchiaio.
Il cavallo del tempo è vuoto e noi
vogliamo esser riempiti.
L’oro allora si versa nella voce e l’ombra
si traduce in luce, in un fiato
venuto su dal fondo.
Forma dell’ombra, o luce, tu nell’oro
sola t’intendi, e in questa ellissi
temporale che è lotta per la vita
che è sempre e si tramanda
liberaci tu, salvaci.
 
 
 
 
Referto
 
Venne su ogni figura un temporale,
così, improvvisamente,
mentre tutto era in polvere.
Cose e persone e l’ora
si stringeva scurendosi e correva
nell’arco di un azzardo
a darsi il corpo, del corpo il referto,
lo scopo delle mani, l’universo
in una stanza piena di sudore.
Così di un mio segreto
amore di una notte
provavo a raccontarti e adesso
ti scrivo che ricordo:
i due a fine temporale
non si sono più rivisti.
Oltre il momento d’acqua, il corridoio
di pioggia che fu specchio, se ne vanno
nel timore di amare, gli uomini.
E il caldo insiste,
da secoli urla noi,
afferma e nega, scompare, ritorna
in rima ingenua, dice che è del male
una radice, amore, e non ha cuore.
 
 
 
 
Andata e ritorno, carcere
 
Casa, ghiaccio, arrestabile sera,
inverno che vedi
la mia mano nascosta
in un coltello, vedi,
la colpa è in un’ombra e nel viso.
 
E tu, notte che resti: è questo
il campo di tutti o è il mio?
Cosa esiste lì? Chi
nel mio non uccidere
più, nel mio autunno? Sei
l’ombra d’estate? Tu
lontano temporale vieni
in questa lunga siccità
addormentami.
 
 
 
 
Segmento
 
Un gesto ti perde in un vento
raro qui ed è
un segmento o l’intera tua vita
che vedi dal vetro, e pensi
che fu come furono
ferme e crudeli le stelle e la nera tua
notte, principio di tutto e di un verso.
 
È in un gesto il tuo perderti, e qui.
In un verso, è questo
il faticoso sempre sconosciuto
valico della morte vera.
Negli anni solitari la nostra era
moltitudine: ognuno pensavi
entrasse in un’aria di
regni scomparsi e colline, di foglie,
di fiume.
 
Perdersi.
E questa è la via, questa la
calligrafia che ha il nome di nessuno
sul libro di gennaio, verità
di un cielo chiuso dentro il verde
di parete di ospedale.
 
E ti perdi, e trascendi,
tramandi un testamento
di suoni ripetuti, in metri e metri
di nuovi corridoi. Così ti sono
accanto vite precedenti
e tutto quello che senti va
in una vecchia paura dei
temporali.
 
 
 
 
Otto anni
 
Questa terra capace
tra l’autostrada e il suo diesis.
La mattina, la brina, sono solo
pochi anni a dividerci.
Verso Trieste ora
la fede continua: amerai ancora,
dice la strada, sarai ricambiato.
E adesso
dentro un tremolio dell’aria
ci chiediamo cosa mangeremo.
La torta annunciata e altro
ancora. Intorno i libri,
una sera che ha un nome.
Da tanto non piove.
Ma un temporale ascolta
si prepara nell’aria, cedono
l’alta pressione e gli anni.
Ti chiamo. Chiama.
 
 
 
 
Fine temporale
 
Ho pregato un riflesso in te,
forse era il mio ma
credendo solo a questo tavolino sparecchiato
è stato inutile. Eppure
non sono materiale, guarda,
neanche la spesa ho sistemato
e nel ripostiglio è caduto tutto.
 
Penso sia anche piovuto.
Era annunciato per oggi, previsto
che venisse e smettesse.
 
Su questo tavolino scrivo
a te riscrivo se possibile
felice di questo
fine temporale.
 
 
 
 
Altro corridoio
 
Lo incontro, ancora una volta.
Parla
e ha un suo ordine muto.
È amore, che di un amore ripete
la parola respingimento. Dimmi,
sei mai entrato in questo corridoio
di uomini e cose
attese e scomparse?
 
Agli infettivi,
sotto orizzonti nostri custodi
che a temporali rinviano e agli amori
false testimonianze fanno dire,
dedico. Dall’oblio
una lunghissima esistenza.
 
 
 
 
Sogno, o preghiera
 
Luce che bruci perduta nel limpido
amore passante o morte grandissima
finalmente lì
negli occhi del non scrivere,
cenere di un giorno
di un volto di paese,
un velo steso sei
attesa e temporale,
la metrica di tante
immaginate fughe.
 
 
 
 
Negli anni un nervo
 
È stata una città e tutto un ritorno
verso casa, verso sera.
 
Era una strada, nel bianco del caldo
nell’impermanenza di due ore
diverse.
Dentro, l’immagine di un ragazzo.
 
Ed era
stringere negli anni un nervo, fissando
il fuori in fiamme col tremore
dei temporali negli occhi.
 
 
 
 
Storia
 

È stato lui, il ragazzo che è entrato. La vita adesso affonda nel cuscino. È entrato nel giardino, una volta. È stato amore anche così. La terra, il suo tenerci in silenzio, quella sacca di male che esiste. Uno poi cerca la cura, non si spiega lo sconcerto. Che poi è stata la brina, il ghiaccio mai più rivisto, il sorridente andato. Non distante c’è il canale della Muzza e qualcuno nel suo andar via. Tutto qui l’arco delle esistenze temporali: un dormire nella bocca, perché erano gesti.
Vai nei terreni, corpo, voce. Ricordati di noi, esposti alla storia. Cosa vorranno dire ora una matita, ora una mano? In questo mondo che ruota e senza stelle la testa è piena di pioggia. Lì, dove finisce il canale, guarda. Dalle nostre labbra pende il nome della Storia.

 
 

Senza dimenticare il testo Alto Ticino, luglio che per lunghezza non riporto per intero:

 
 
[…] È stato il nostro parlare,
nostra la colpa, nel chiedere. E lei:
– Dura due ore… se ne va, poi torna.
Parla di temporali e guarda il Prévat,
la ragazza della capanna. Il monte
appuntito nel cielo, ecco la sua
natura, dura pietra grigia e scura
che vuole nuvole nuove,
ripristinati freddi.
Così anche noi guardiamo
in quella direzione, dove l’attesa va
infilandosi in un’altra cornice.
[…]  
 

E similmente il testo Luglio 2017 dove il termine temporale acquisisce un ulteriore significato:

 
 
[…] Pensa, l’altro versante. Da qui non si direbbe.
Si sale negli affetti e la via
piega verso il ventoso: è il nervo grande
petroso, tempia, osso temporale.
Svoltiamo allora
in questo luglio.
[…]  
 

Andando a leggere con maggiore precisione:

 
 
in questa ellissi
temporale che è lotta per la vita
 
[…]  
Venne su ogni figura un temporale,
così, improvvisamente,
mentre tutto era in polvere.
 
[…]  
i due a fine temporale
non si sono più rivisti.
Oltre il momento d’acqua, il corridoio
di pioggia che fu specchio, se ne vanno
nel timore di amare, gli uomini.
 
[…]  
Tu
lontano temporale vieni
in questa lunga siccità
addormentami.
 
[…]  
Così ti sono
accanto vite precedenti
e tutto quello che senti va
in una vecchia paura dei
temporali.
 
[…]  
Da tanto non piove.
Ma un temporale ascolta
si prepara nell’aria, cedono
l’alta pressione e gli anni.
 
[…]  
Penso sia anche piovuto.
Era annunciato per oggi, previsto
che venisse e smettesse.
 
Su questo tavolino scrivo
a te riscrivo se possibile
felice di questo
fine temporale.
 
[…]  
Agli infettivi,
sotto orizzonti nostri custodi
che a temporali rinviano e agli amori
false testimonianze fanno dire,
dedico.
 
[…]  
un velo steso sei
attesa e temporale,
la metrica di tante
immaginate fughe.
 
[…]  
Ed era
stringere negli anni un nervo, fissando
il fuori in fiamme col tremore
dei temporali negli occhi.
 
[…]  

Tutto qui l’arco delle esistenze temporali: un dormire nella bocca, perché erano gesti.

 
 

Emerge chiaramente che il temporale come evento atmosferico rappresenta l’accadimento, l’imprevisto e l’imprevedibile (si ricordi la succitata citazione da De Angelis) nella realtà, che a tratti destabilizza e a tratti rincuora. È quella realtà ineluttabile che ha bisogno di giustificazione (come visto prima tale giustificazione prende il nome/vestigia di Dio, religione, fede) ma che si incarna nella vita sia a livello somatico (è il nervo grande / petroso, tempia, osso temporale) sia a livello esistenziale (in questa ellissi / temporale che è lotta per la vita).

Soprattutto quando Poletti cita l’ellissi temporale ci fa comprendere quanto il momento meteorologico sia forma e metafora dei momenti della vita senza per questo scendere in spiegazioni dettagliate (ed è uno dei pregi di Poletti). Al lettore il parallelo tra l’accadimento temporalesco con le sue dinamiche più evidenti (ad esempio la più volte citata pioggia) e la vita in quanto trascorso, in quanto tempo che passa con tutto ciò che inevitabilmente succede. E che pretende un rapporto, una relazione inevitabile.

In questo il rapporto anche con la Storia, vissuta non come successione di accadimenti politici ma umani inseriti in un contesto che ne cita le pieghe, le fondamenta minutamente biografiche:

 
 

[…] Tutto qui l’arco delle esistenze temporali: un dormire nella bocca, perché erano gesti. Vai nei terreni, corpo, voce. Ricordati di noi, esposti alla storia. Cosa vorranno dire ora una matita, ora una mano? In questo mondo che ruota e senza stelle la testa è piena di pioggia. Lì, dove finisce il canale, guarda. Dalle nostre labbra pende il nome della Storia.

 
 

L’uomo è esposto alla storia come ai temporali, come al tempo, all’amore, alla perdita. Ne è esposto e non può esimersi dal prenderne atto, dall’osservare la relazione che si instaura.

 
 
Duecento anni dopo, un altro episodio:
io che ha preso nome,
rasoio dei temi e del tempo,
l’antico libro del sangue e del volto.
Ecco, la storia. E adesso
nell’altra stanza c’è un uomo, il suo corpo
pieno di ore è dentro la sua età.
Cerca, cerca mortali
orbite di cinque sei settecento.
Epoche, oceani, battesimi, spazio.
Lo chiama un’infinita estate.
Lo hanno chiamato.
 
 

Una relazione che non rifiuta la propria presenza ma nemmeno la espone, né la ostenta. L’io in Poletti è un inevitabile punto di osservazione che non ingombra in quanto proiettato all’esterno, alla realtà. Basti vedere i titoli delle sette sezioni:

 
 
Religione di un giorno
Viaggi
Dediche
In sogno
Un luogo
Altitudini
Storia

 
 

Un percorso poetico che dall’io prende come punti di riferimento la poesia (Poeti, / è di un deserto questa storia… / Senza scrivere sapevate, / già avevate amato per sempre), il tempo, la vita (Ormai è giorno e nella sua magia / chiede ancora la pagina infinita / e che il suo nome sia / tempo, punto, vita), gli altri, gli amici (Tu canti adesso / una canzone di puro mattino. / Il catalogo delle finestre sulla notte / tanto aperto si è chiuso. / Istante della voce, voce del sempre, lettere), il sogno, la musica (Ma è come in una foto fuori fuoco / la nostra carne. E noi siamo / non strisce di parole / ma musica, musica), i luoghi (Ora, è giorno. Dentro il giorno c’è la notte degli altri, cose accadute qui veramente, non quello che succede nella mente. Come da dietro un sipario, da uno strappo scompari e appari, campo per ognuno di lavoro, di prova, in cui si recita smisurata e superba in un atto di linguaggio la vita), i periodi (È così che ti penso, ancora dentro la casa. Fuori è quasi Natale, c’è la nebbia che stanca gli uomini. In un’ostensione aspetto che venga fortissimo il vento. Anche un giorno soltanto. Chi ha gridato nel vento sa. Faccio un respiro, grande), la storia (Chi è nato dal ventre aperto / della storia non ha specchi puntati contro gli occhi, / a Bernauer Strasse passa, fotografa attento / quel che vuole senza per questo ricevere / un riflesso accecante. / Non così per Schumann, / lo Springer, sfuggito / al sigillo che avrebbe dovuto amare).

Per capire meglio la questione dell’io in Poletti, oggi fondamentale all’interno del panorama poetico contemporaneo, è bene rileggere alcune frasi di Guido Mazzoni scritte in riferimento a Il profilo del rosa di Franco Buffoni (In Roberto Cescon, Il Polittico della memoria. Studio sulla poesia di Franco Buffoni, Pieraldo Editore 2005):

 

In generale, Il profilo del Rosa racconta l’uscita dai confini dell’io, la scoperta che il reale è altro e indominabile: l’esperienza del bambino che incontra i conflitti primari e i limiti della persona, quella dell’adolescente che con fatica e dolore scopre chi è davvero, che cosa e chi desidera, e poi quella dell’uomo che ha ormai un destino e che comincia a sentire, nell’indebolirsi della memoria, lo scorrere del tempo. I suoi temi sono l’incontro con la morte, con la violenza, con il desiderio che domina l’io, ma anche con le cose nella loro verità, «senza il nome che hanno». La forma del trauma è l’espressione naturale di un contenuto anch’esso traumatico, perché la scoperta dell’alterità del mondo è sempre dolorosa. Sul suo rovescio si legge infatti l’irrilevanza di ogni biografia, l’insufficienza della vita personale.

 
 

Tali affermazioni benissimo si accostano anche a Temporali sottolineando un’illuminata esigenza (ormai pregnante in diversi autori) di partire dall’io uscendo dall’io stesso. Si tratta di un ribaltamento della scala di valori dominante dove, per la maggior parte, notiamo degli ego che reputano il mondo un loro satellite, mentre in Poletti (come a livelli più raffinati in Buffoni) l’ego è lo strumento indispensabile del rapporto con l’alterità, con il mondo, ma non ne è il fine.

E come in Buffoni anche Poletti ne soffre gli scarti, le crepe, l’insufficienza della vita personale che in Poletti diventa temporale e necessità di giustificare (per comprendere) l’esistenza di tale alterità.

Che Poletti in qualche modo vive appieno anche nella destabilizzazione non solo temporale, ma addirittura geografica ricordando il miglior Sandro Pecchiari di Le svelte radici (Samuele Editore 2013):

 
 
Otto anni
 
Questa terra capace
tra l’autostrada e il suo diesis.
La mattina, la brina, sono solo
pochi anni a dividerci.
Verso Trieste ora
la fede continua: amerai ancora,
dice la strada, sarai ricambiato.
E adesso
dentro un tremolio dell’aria
ci chiediamo cosa mangeremo.
La torta annunciata e altro
ancora. Intorno i libri,
una sera che ha un nome.
Da tanto non piove.
Ma un temporale ascolta
si prepara nell’aria, cedono
l’alta pressione e gli anni.
Ti chiamo. Chiama.
 
 
 
 
Pochi amici
 
Cosa s’intende con mancato, inutile.
 
Tentammo negli inverni:
strappare dalla nebbia, con la mente
qualcosa, forse tutto di noi. Fosse
nostro o meno e a un punto chiaro il destino
stava la nebbia in pianura, restava.
Finì così un periodo. Noi tentammo.
 
Poi sole, grattacieli dei nostri anni.
Nei giorni, i pochi carichi di vento, col vento
profezie e fumi, muri.
Era così, luminosa o no Bergamo.
Chi ha lavorato stanco, per avere
tutta la colpa chiusa dentro il cuore
(ora tanto difficile da aprire),
chi senza avviso per non ritornare
ha deciso di andare
nel cuore aperto al nero, ed è per sempre.
 
O vicini o distanti,
il disimpegno è comunque servito.
Dentro il nostro Occidente
ciò che è nato è smarrito; tornate,
caviamo alla nebbia secoli, e secoli,
portateci nell’alba.
 
 
 
 
Scendiamo
 

Giù, verso Bergamo. Dentro l’anello dei corpi santi, poi sopra le mura, per incontrarvi. Bergamo di pietra, tu ci ripeti, insisti, ripeti continuamente che non ci siamo incontrati. Ma dove siete? Il vostro ininterrotto suono e noi qui. Non resta che pregare, in fondo, come si può, e io posso balbettare. E voi? Se siete parole, vi prego, diventate epigrafi.

 
 

Una destabilizzazione che rappresenta non solo lo spaesamento di fronte alla realtà ma anche la necessità di rilessicarsi di fronte all’alterità, al mondo. Dove la necessità di affrontare la relazione (che è anche la possibilità della consapevolezza, cosa estremamente preziosa in un uomo oltre che in un poeta) viene in qualche modo risolta da Poletti (senza grosse né definitive dichiarazioni, ma con la sua usata delicatezza di tono) attraverso la possibilità della voce.

Perché è tale possibilità, che è anche cura, a dare senso all’io e all’alterità. Se infatti in maniera del tutto emblematica il libro si apre con i versi:

 
 
Un discorso religioso, ma niente fantasie.
 
In casa, una volta entrato, ho trovato
una perdita. Ora
cerco il suo luogo nascosto.
 
Con le mani cerco, mani che hanno pensato
e hanno toccato, hanno preso.
 
Forse trovano la verità: non
nel passato, dov’è già scritta.
 
[…]  
Il respiro tornerà come all’inizio,
dove c’erano i talenti,
prima delle scale,
della porta, del corridoio.
 
 

Che escludono la voce ma inseriscono l’elemento della scrittura (ribadito nel secondo testo: Scivola all’infinito presente / una malattia. Scriverne?), in chiusa invece leggiamo:

 
 
Epoche, oceani, battesimi, spazio.
Lo chiama un’infinita estate.
Lo hanno chiamato.
 
 

Con una voce che chiama che trova riscontro in ben 11 ricorrenze nell’intera opera. Ricorrenze che partono dal terzo testo (che altrettanto emblematicamente mette in relazione muto e voce appellandosi ai poeti):

 
 
Di una poesia, andandosene
 
Vi divorò, la fede. In stracci e verbi
eravate e stavate per dire
qualcosa
quando la riedizione del muto vi richiamò
a gran voce. Poeti,
è di un deserto questa storia…
 
Senza scrivere sapevate,
già avevate amato per sempre. Altrove
è un’eternità
il lavoro dell’acqua, dare al prato l’ortica,
all’uomo il muschio che bacia la pietra.
 
 

Passando per uno dei testi più importanti in Temporali:

 
 
Neve (per una fotografia di Richards)
 
Dormono secoli di appunti
sotto la neve. Lì
non c’è più nessuno, solo frammenti,
affanni di un passato.
 
È una casa, vedete,
e al centro c’è una vita resistita nel suo darsi.
 
Pastorale del freddo, case, case
abbandonate.
 
Ogni cosa per vocazione preme in una voce,
sembra dire: è occulto il fine.
 
Era questo, vedere. Giusto qui
al mondo, fatti eterni gli occhi e noi.
 
 

Fino al penultimo testo in prosa poetica:

 
 

[…] Vai nei terreni, corpo, voce. Ricordati di noi, esposti alla storia. Cosa vorranno dire ora una matita, ora una mano? In questo mondo che ruota e senza stelle la testa è piena di pioggia. Lì, dove finisce il canale, guarda. Dalle nostre labbra pende il nome della Storia.

 
 

La voce è la possibilità dell’uomo di oltrepassare non solo il tempo e il temporale (per rimanere all’interno dell’immagine/metafora) ma anche di esistere all’interno dell’imperscrutabile, dell’inatteso, dell’imprevedibile. Di andare oltre l’ipotesi dell’uomo definito come l’immagine di Dio, che cade / dentro i corpi, le orografie, i mondi, / le rappresentazioni.

Alessandro Canzian