dove il dolore, il corpo imperfetto – su Alberto Toni

Quando viene a mancare un Poeta, un vero Poeta, tutto il mondo perde qualcosa e guadagna qualcos’altro. Perché la poesia non è mai il poeta, ma ciò che grazie al poeta sopravvive a lui stesso. La poesia è un dono al mondo che prescinde da chi lo fa, anche se nasce necessariamente lì. Nella poesia resta l’eco dell’autore, mai l’autore intero.

Da quando la poesia ha incontrato i social media, la dinamica dei like, il poeta è diventato la peggiore icona di se stesso proiettando e pretendendo un’immagine spesso stereotipata, sorridente, vincente. Cosa fa questo poeta da social media? Emoziona? Dà un valore aggiunto alle vite altrui? Insegna qualcosa? Dà un pugno nello stomaco di chi lo incontra proiettandolo in chissà quali iperurani ad altri preclusi? Mostra la verità?

Come conseguenza dei pollici in su si è creato poi un vero e proprio mercato della poesia che, per buona pace degli Editori, con i libri non c’entra nulla. Il poeta ormai viene pagato per leggere agli eventi. Viaggio, pernottamento, pasti, spesso anche qualche centinaio di euro in più perché lui è il poeta e dà un valore aggiunto all’evento.

Ma cosa fa esattamente questo poeta? Piace come personaggio. Le sue foto circolano in rete ed altri poeti chiedono e cercano selfie con lui. Tutti sorridenti, tutti parte di una storia che purtroppo non nasce come sedimentazione di significati ma come imposizione di immagini.

 

E poi c’è Alberto Toni. I tanti Alberto Toni che ancora vivono, studiano, scrivono. Non hanno vent’anni e non ribaltano il mondo. Non strappano il tessuto della realtà ma accolgono la realtà in quanto tale, in quanto già lacerata, e la tessono attraverso la Storia. La Storia, quella vera, quella successa, quella che fa pesare ogni parola di una poesia.

Quando viene a mancare un Poeta, un vero Poeta, tutto il mondo perde qualcosa e guadagna qualcos’altro. Come con Alberto Toni. Si perde un esempio di umiltà, di lavoro, di studio. Si guadagna un’evidenza: Alberto Toni resta. La maggior parte degli esseri umani nei secoli nasce vive e muore. E nessuno ne ha più memoria. Alcuni restano come esempi positivi, altri come esempi negativi. Poi ci sono i Poeti, quelli veri, quelli che sanno che l’obiettivo non è il like ma il tempo. E il tempo lo guadagni, il tempo ti fa diventare eterno, solo se dici e scrivi qualcosa di importante.

La parola ha sempre affascinato l’immaginazione umana e ancor oggi non sappiamo bene quale e quanto potere abbia. Perché la parola non esiste, è aria che si muove, è segno su un pezzo di carta, eppure modifica il percorso delle vite. La parola è stata l’atto della creazione divina: Dio disse. La parola è stata discorso intelligente, logos. La parola è stata magia, è stata ed è tutt’ora preghiera. Ed è ciò che ci sopravvive.

La parola, la poesia di Alberto Toni, è un qualcosa che dovrebbe essere preso a esempio da tanti autori contemporanei. Un continuo equilibrio con la misura. Un continuo limare la moderazione, l’umiltà, la consapevolezza che per interpretare la realtà è necessario usare le lenti d’ingrandimento della Storia e della Letteratura. Alberto Toni aveva percorso il secondo Novecento tra incontri, conoscenze, letture e studi. Proveniva da una Roma e da un’Italia letteraria con cui la contemporaneità non ha ancora fatto del tutto i conti. E la citava e riprendeva continuamente nei suoi versi.

 
 
Lungo il Sangro
 
Dal Sangro mi diparto e nuota,
lei, la trota sannita
e s’annida al temporale, sfida il grigio
e il verde, mentre l’acqua, il riverbero
di fibule sotterra il tempo antico e
quanto resta. Ma poi oltre il chietino
giunta al Capestrano illustre che non teme
i secoli, ah, quanto per la lingua distrutta
degli avi, lei non teme le nostre sorprese
contemporanee e lascia soltanto un filo
nel percorso, spiazza in controtendenza
la lenza del pescatore ignaro e poco furbo.
Temiamo per la sepoltura e intanto un grido
s’alza dai secoli, quel molto, deciso, a dispetto
di me. La trota
che s’inerpica nel grigiorosa tra i sassi
e poi scompare. Come una spada, una lancia
museale, viva e sembiante, un po’ in ombra,
ma eccola al raggio e alla pioggia sopravvive,
rinasce di giorno in giorno, smilza che fugge
e scrive la storia antica. Fuori, la cinta funeraria
è spezzata, si incrina, al passo
dei tratturi e dei sassi bagnati. Se dalla
fugacità rapita noi non proviamo gioia, eccolo
il turbinello della mente, il basso
che ci pesa al cuore, lapsus, offuscamento e male.
 

da Il dolore (Samuele Editore 2016)

 
 

L’immagine della trota sannita apre il libro e, in maniera estremamente puntuale, nella prefazione Roberto Cescon la spiega: La trota sannita, l’allegoria con cui si apre questo libro, subito rivela uno dei nodi attorno al quale si muove la poesia di Alberto Toni: la sfida del presente, che è sopravvivere giorno a giorno vivi e sembianti a pelo d’acqua, malgrado le tempeste e la strada che s’incrina.

Ma la trota sannita è anche un riferimento a Luzi che va letto, che va messo in relazione perché nulla è mai solo quello che sembra, nulla è mai solo nella sua realtà ma deriva da altro, porta in sé il Dna d’altro. E allora andiamo a leggerci la Trota in acqua del poeta fiorentino:

 
 
Le pettina i pensieri,
le mola i sensi quel flusso
d’acqua e d’aria
             a un più duro soprassalto
le sbatte il dorso, le sveglia
una memoria
ondosa, tra prossima
e lontana,
             di suoi diacci chiarori.
 
La culla, il vasto, la sferza
ma anche la scompone
il passato ed il presente,
le disordina il luogo e il tempo,
pazzo, la disorienta
 
         e lei cala razzando
         alle sue cieche riserve
         si libra in una nube
         il verdecupo la ritempra
 
         ed eccola si slancia
         in alto, fende
         l’ombra e il peso
                           trita
         coi suoi dibattimenti
         il filo della lunga risalita
         verso il chiaro
         e la trasparenza
lui le svaria intorno,
le scinde parvenze,
le moltiplica le immagini
con perpetuo mutamento
di sue luci
e di loro rifrangenze
sopra e sotto quella fluida quella cristallina pelle.
 
Così l’abbaglia a volte
ma la porta
in sé il fiume, le apre ogni barriera
di vortice e di gorgo,
l’avvolge col suo manto
di frenesia e potenza,
la spinge alla sua sorte – ma non ha
                           una sua sorte, lei,
                           non può,
                           lei non è lei,
                           è solo la sua famiglia –
 

Mario Luzi, da Per il battesimo dei nostri frammenti (Garzanti 1985)

 
 

È chiaro, è necessario, prendere il metro e misurare la distanza tra il testo luziano e quello di Toni per comprendere la visione del mondo di quest’ultimo. Per comprendere quel basso / che ci pesa al cuore, lapsus, offuscamento e male che apre al Dolore, emblematicamente riportato al Dolore Ungarettiano.

E tutto questo per parlare della perdita della madre. Una madre che per Alberto Toni era stata il motivo del suo essere Poeta. Una madre che in questo libro, con questa scomparsa, aveva messo su un unico piano, in unico straordinario punto, in questa (oggi diremmo) singolarità, dolore privato e dolore esistenziale, vita intima e vita sociale, propria voce e voci dei maestri. Perché Alberto Toni sapeva che la Poesia è un punto d’equilibrio del quale il Poeta non può far altro che tentare di dire questo l’ho scritto io perchè è e sarà sempre altro rispetto a lui, è e sarà sempre qualcosa di più di quello che è il suo autore.

 
 
Il dolore
 

a mia madre
in memoria

 
Il dolore si muove. A giorno pieno
se ne va il ritratto, il sembiante che
era. Sembra un segno di ritorno, ma
non è questo. Ritaglia piuttosto una
posa antica di sé, in ogni fotogramma.
Tiene svegli i sensi, a volte è ascolto,
sottilissima piega, o una curva. là,
alla radice la parola lei, cara come
non mai: i saluti, quei saluti nel corridoio,
tutto annotato fino all’ultimo, pagina
dopo pagina, sentimento dopo sentimento.
È la via maestra che sostiene, che dice
dopo la forma c’è il luogo in cui lei
sosta. Ma non all’ultimo. Ancora
più in là torna per la sua festa,
quando ricorre il giorno. Si muove
il dolore, tradisce se stesso da un
secondo all’altro. ora è nell’occhio,
poi è sulla bocca o appare
in un suono appena percepito
di passi, e le mani accompagnano
il ritmo dei suoi anni migliori.
Quello che resta, ed è cuore,
il bellissimo cuore impresso
in vita, fino a tutta la vita.
Non lo consumerà, non per tutto
il tempo che servirà, e ancora.
E non nel vetro, nello specchio,
ma pura sostanza, amore che ci serve.
E sempre al di là dell’illusione,
perché non c’è illusione, ma verità,
sentire, toccare, percepire,
dirlo coi sensi tesi, per camminare,
era nel fianco doloroso, nella testa
di sera e il suo perdono, la sua
testimonianza di umanità.
Il dolore si sposta, è sponda
anche dell’altro quando parla
e trascina un pensiero fisso,
che è solo amore, non altro
quando nell’aria la sentiamo
arrivare.
 
 

Ma cos’è questo dolore? Alberto in un’intervista a Doriano Fasoli disse:

Il dolore implica sempre un cambio di prospettiva. Può essere accettato, ma modifica la nostra percezione. «Il dolore si muove», dico. Nel senso che sposta l’asse della vita. Nel caso specifico la scomparsa di mia madre ha segnato il confine tra un prima e un dopo. Subiamo il dolore, il lutto, ma anche il dolore per le guerre, la fine di una civiltà, le disparità, il male. Quello che voglio dire ha sempre a che fare con il concetto di presenza e di mutamento. La poesia può essere testimonianza e tentativo di assorbimento: in un momento storico particolare è richiamo alla responsabilità dell’umano. La poesia ha strumenti potenti per farlo, non credo che li abbia persi. Non inseguo la giustizia, ma cerco un luogo, un possibile luogo identitario tutto da ricostruire. Ma ripeto, come poeta sento di essere un organismo collettivo che viene da molto lontano. Perché la poesia anche quando è privata diventa sempre un fatto sociale, dal dolore di Priamo per la morte di Ettore a quello di Ungaretti per la morte del fratello e del figlio Antonietto. Ci sono i ‘fratelli’, gli uomini con le loro tragedie, guerre, migrazioni, povertà. Quando sei giovane non pensi a queste cose, poi la storia ti mette di fronte al dolore, ai dolori. E passi dalla prima persona al noi. Ecco il cambio di prospettiva.

[…]

Il dolore coincide quasi sempre con una perdita. L’essenza del dolore consiste in una maschera vuota, in un’orma, nel disfarsi del tempo. E il tempo può essere un antidoto, quando ricostruisce qualcosa, un’immagine. Le parole giocano una parte importante (la parola poetica), perché restituiscono forma al tragico. Dobbiamo imparare dai greci. Il dolore allora non si consuma, ma ricrea terreno fertile per una possibile ricostruzione. È un movimento ciclico.

da sullaletteratura.blogspot.com

 

La parola quindi come responsabilità dell’umano, come un dalla prima persona al noi. Parola anche come atto d’amore dichiarato come nell’ultima poesia de Il dolore:

 
 
Dentro la città
 
Cintata l’agorà, il quando e il dove,
mi vieni incontro e dici non temere,
dacci una notte pura, una ragione,
che sia migliore, le strade d’asfalto battute.
Al mercato che sia buona la spesa,
il fuoco riscalda i presidi.
dovevamo dirlo a tutti l’amore,
la pietà, il sentimento bello
dei viali bene ornati in primavera.
Più mi dolori e dici
che non c’è niente da fare?
Torno e ci sei ancora,
torno e non ho paura.
Ricalca un vecchio motivo nel marmo
del ponte romano, una passeggiata
serale a filosofare. E dunque la mia
innata volontà di spingermi avanti
nel desiderio. Tornasse l’aria mite
serale, ce lo diremmo a viso aperto:
quello che è stato non torna e dentro
la città si ripercuote il silenzio che
già fu degli antenati. Soltanto ombre,
destini che il tempo ha cancellato
dal buio degli androni, le scale
della resistenza. Ma si sentono
i passi come un colpo secco,
una scia di luce calcinata.
Ma se ancora fingi, tu, mia,
non altro avrò se non i tuoi confini,
soltanto ti vedrò caduta al cinema
in qualche vecchio film neorealista.
Marcia ora un turbine in periferia
e serra la miglior parte.
Fuori da questo possiamo
fuggire. Ma sarebbe come dire:
con te non posso più stare, devo trovare
un altro luogo per la vita e gli anni.
Tu mi ci vedi? Io che dico: non torno
più da te?
dichiarandosi l’amore diventa eterno,
perlustra, si ingegna di durare, non offende.
Rinata, ancora in pasto a una scommessa
vorrei distendermi di nuovo attraversarti.
Così è l’amore. Così si raggiunge il paradiso.
Pare il rosso appena intravisto il bellissimo
tramonto su te, divina. la testa rialzata
a guardarti nel fiume, il più cattolico.
universalità che mina i cuori, invettiva,
Natale, Pasqua, tutte le feste comandate
e i fedeli in processione.
Appena in tempo per cantare la gloria,
contare i minuti e le ore che qui si depositano
liquidi e pastosi fin sopra i tetti. un tempo
che accoglie il dramma dello spirito dell’uomo?
 
 

Perché il dramma dell’uomo non preclude l’amore ma anzi lo inizia, lo spinge, lo ricrea. Così come la scomparsa di un Poeta lo consacra e lo rende eterno. È l’opposizione secoli di lettura/like di cui tanto ho personalmente parlato con Alberto nei vari momenti in cui ci siamo incontrati. A Trieste due volte nel ciclo Una Scontrosa Grazia. A Venezia a Callisto. A Roma alla presentazione del succitato libro Samuele Editore e in occasione della pubblicazione nell’antologia La lengua incansable. Poesía italiana, 10 voces contemporáneas (Buenos Aires Poetry, a cura di Alessandro Canzian, traduzione di Antonio Nazzaro).

Alberto Toni era l’immagine perfetta della sua poesia. Essenziale, elegante, con quel non so che di aristocratico che strideva direi armonicamente (per quanto possa sembrare assurdo) con una gentilezza e affabilità straordinarie. Con un male dentro, sempre evidente negli occhi come nelle parole come nei versi. Un male non esposto, non inutile, ma continuamente ragionato e rielaborato per capirne il motivo, l’insegnamento.

 

Perché la vita serve a capire qualcosa della vita stessa. E questo è il dovere di ogni uomo e donna e soprattutto di ogni poeta. E in questo Alberto Toni ha assolto il suo dovere e se ne è andato, restando così per sempre.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
 
 

Da Alla lontana, alla prima luce del mondo (Jaca book 2009, finalista Premio Brancati, Premio Camaiore, Premio Dessì)

 
 
La fonte
 
Che altro desiderare se non lo sguardo
di matrona regina, infernale alla fonte?
Non risponde a nessuno, ma si volta
a cercare il bersaglio per trafiggere
a caccia di amori da consumare in fretta.
Più che matrona sembra la porta
dell’Aldilà, bocca feroce di profumo
di selva. O la Ninfa vedesse e si riducono
certi uomini raggianti alla politica
e vincitori quando impastano la bocca
di promesse segrete e perfide!
Applaudono al teatro i tragici
e loro ne sono specchio fedele,
inconsapevoli della verità.
Morti resuscitati al varietà
e le speranze tradite di chi ha riposto fiducia
nei loro discorsi. Amore sale in cima
al colle per guardare la città dall’alto,
che possedere la coppa di vino degli amanti,
l’arte musiva, il cenacolo della poesia,
gli eventi e le faville, i letti caldi e accoglienti
nella notte invernale. Il suo profilo
di pietra è stampato sulle statue gloriose,
i cani vi trovano riparo, i ladri fuggono
inseguiti da sogni di riscatto, il pianto
alla fonte illuminata dalla luna piena.
 
 
 
 
 
 
Da Democrazia (La vita felice 2011)
 
 

Hai un’idea dei morti? Il bollettino dell’una dovrebbe già parlarne.
Vuoi che in un’ora li contino tutti?
Non lo riveleranno mai, credi a me, mai.
Uno almeno di quei bestioni lo avranno abbattuto?

Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza

 
Mettiamo che qualcuno sorprenda
il volo degli uccelli, il cielo, stizzito,
stremato, come le altre cose, una
corazza, carcassa a tenere il giubilo,
la fine dell’offensiva.
 
All’inizio sembrava il colore più certo,
un cremisi, ma adunco nel becco, o
un opale come l’ala o una soltanto
delle due. Di sotto, la sciarpa al vento,
il berretto.
 
Una vittoria, nelle strade non c’era
più quell’odore di stantio, rimanevano
a braccia aperte, una protesta, un’idea
finalmente qui scriviamo la parola
buona.
 
La bontà dedicata all’eroe nell’atto
supremo, il figlio che ritrova il padre,
con lui scrive la legge, la ritaglia a
misura d’uomo, come non mai, una
fonte.
 
La legge scritta, ma prima ancora
quell’idea di proteggersi, alla luce,
prima ancora sorreggersi e poi per
gli altri rimasti indietro nella truppa,
radi.
 
Nel fango, esterrefatti, andiamo
a raccoglierli, vuoi vedere la mia
giacca a brandelli e ciò che resta
come in un museo di solitudine
e di guerra?
 
A turno, la parola, da nord a sud
in assemblea, anche le madri, ciò
che resta in un giorno qualsiasi
in una primavera appena cominciata
e bella.
 
Pulire la strada, rassettare, prendere
la parola, perderla, dividere, tacere,
il tonfo, la gamba che fa male, ora
mi fermo e ascolto, ora che tutto è
deciso.
 
Quando scende la notte sui tetti e
tutto è fermo, lì non basta, non
serve, non altro spirito che fermare
la diaspora e scendere a patti in
ombra.
 
L’ombra, così che dai raccolti non
sembri imminente il dolore raccolto
in conversazioni interminabili. C’è
ancora tempo, anche il braccio fa
male.
 
È soltanto un’abrasione, la fronte
scotta, qualcuno è fuggito, difficile
riprenderlo, poco importa, succede
spesso e il cielo è livido, forse sa
di noi.
 
Qualcuno diceva che la salvezza
ha bisogno del fuoco, le madri
in gesti di stizza verso i soldati
che non capiscono. Dentro la
tenda il puzzo è insopportabile.
 
Urina e filamenti di tabacco,
tentennamenti un sonno che
non ha fine, senza sogni particolari,
la scala per il paradiso, a questo
nessuno ha pensato.
 
Il grido sulla collina, nessuno è
salito per guardare, potresti dirmi
quanto manca alla stazione, ai
collegamenti, agli incroci, prima
che sia tardi?
 
I cartelli lo dicono chiaro: qui
nessuno può pensare che la divisione
dei compiti sia eludibile, si tratta di
mettersi d’accordo tra le lacrime degli esclusi e i
giochi solari dei bambini, quelli, sì, sono veri.
 
L’acqua scarseggia, allora qualcuno diceva
di tirare a sorte, ma i più non hanno risposto.
Vedi di non restare indietro con i conti, ne
va della sopravvivenza se vogliamo essere
credibili.
 
Bussa alla porta la carta
vincente. Domani ci spostiamo,
ma è l’assemblea in ultimo che
decide, i malati non saranno un
problema.
 
 
 
 
 
 

Da Vivo così (Nomos Editore 2014, secondo premio Pontedilegno Poesia 2015; finalista premio Nazionale Frascati Poesia Antonio Seccareccia)

 
 
Tutto deve andare avanti.
Ma poi noi non sappiamo
se l’illusione è verità. Allora scendo
e salgo fino alla prova e non per paura
e dolore, ma soltanto per conoscenza.
Vedrò tutti i colori insieme, soltanto
per un istante? Un vetro solo che separa,
esclude tutte le immagini più volte ripetute.
 
 
 
 
 
 
Era l’eterno sorriso all’origine.
Poi fu l’alterno sorprendere dei momenti,
la ruota del prenderti e non prenderti,
sospendere il giudizio, spostare l’idea di Dio
e del firmamento. Non calibrato o previsto
si fece strada un documento scritto d’amore
e forza.
 
 
 
 
 
 
Con tecniche da iniziato,
sarà un districarsi lento e vuoto.
Perché di sofferenza in sofferenza
la luce non molla la sua presa?
 
 
 
 
 
 
Che fare tra gli infiniti luoghi?
E gli anni non li hai dimenticati,
anzi sorprendono tutti in una volta.
Qui ci vuole la mano di Dio,
una giravolta, andiamo avanti
e indietro, il profilo dall’alto
del terrazzo. La lingua muta
della periferia in estate.
 
 
 
 
 
 

Da Il dolore (Samuele Editore 2016, finalista premio Camaiore 2017)

 
 
Una pulizia dentro. la solitudine del Canyon mi toglie
il fiato, è pietra rossa.
Di là da me troppa la vita o forse muore. Non so. Non
so niente di lui che chiede aiuto. Già fermo, ma non per
qualcosa,
niente di lui che d’un tratto si abbandona a se stesso.
 
 
 
 
 
 
Non il tempo, ma i tempi: quelli
dei ritratti e dei cieli mobili,
angeli piegati verso il basso,
schiere, viluppi, antichi
turbamenti. Fin qui, fin dove
sparsa la vita accetta le lingue
e le ragioni, il destino e il torto,
la lunga strada, gli interni, i
fuochi delle stelle, il pericolo
che sale a notte, le pareti e le
ombre, la triste tenaglia, il
lungo declino dell’occhio.
 
 
 
 
 
 
Così lontani, non sembra vero
il passaggio minimale, nel cono
d’ombra, troppe le avventure mancate,
la cacciata, la fuga negli spazi riarsi,
essenziali. E il movimento è sempre
quello, sempre uguale, anche se
appare diverso ogni momento.
È l’illusione ottica della vita,
la fantasia che corre e spaventa
i più piccoli per un nonnulla.
la santa scala fino a un barlume
di verità decente: la pianta del bene
quando si sente
pungere in testa l’ossessione del tempo.
Non lo sapevo al punto tale
feroce e indifferente. Non appare
mai. dispare continuamente
sull’asfalto e ritorna di notte
nello struggimento al risveglio.
Rema contro, il tempo. Rema
per la città senza cuore, per
i secoli brevi, troppo brevi.
E a niente vale la clessidra,
se non come specchio e tema.
 
 
 
 
 
 
In ultimo, ma non ultima l’impresa:
ritrovare il nesso vita poesia difesa,
raccogliere le forze, evitare la resa.
Ma no, nel lago di quest’ora morta
l’ago della bilancia è per un sì,
anche incrociando a caso
e nella pioggia l’altro che scuote
e rompe il suo silenzio, resta per un po’
fermo e poi riparte, tu senti litanie
nel fondo, e poi lontano. Sembrerebbe
poco e invece è lui che parla, riscuote
un tornaconto inutile ed è poi folla che
ingigantisce le strade, occupa i tuoi
pensieri di appartenenza o disappartenenza.
 
 
 
 
 
 
Tenere il passo per le stagioni, sì, lo direbbe,
lo vorrebbe, per mantenere vita alla vita,
senza il dubbio che lacera, semplicemente,
tenere la casa in ordine, salutare all’arrivo,
districarsi tra un gelsomino al cancello e le prime rose.
 
 
 
 
 
 

Da Non c’è corpo perfetto (Algra Editore 2018)

 
 
Didascalia minima e accensione.
Viaggio solo, il peso è mio, la torbiera,
il drappo, la visiera, il cappotto. Mi ricordo,
lo comprai quando il vento ancora soffiava
forte, mi preparavo.
 
 
 
 
 
 
Oh la mia fronte, non più di ieri paradisiaca,
eppure già prende l’incanto di una mimica
più lieve, sente il tempo, segna il cerchio,
riprende a tratti un vecchio motivetto.
È in quell’andare che mi riconosco,
dal basso all’alto, dal frammento
che si ricuce a fatica.
 
 
 
 
 
 
Così nel farmi piccolo tra mille
e mille pieghe, nel farmi audace, sfinito
quando al cospetto di una vecchia ombra
non so più parlare. Forse non lo sapevo,
immaginarlo neppure,
sbandava l’accento e il corpo tutto,
pratico come tutte le cose
diventava altro.
Che danza nuova è questa?
Io, se resto, ricordo,
ma il ricordo non è più
del viaggio già compiuto,
più di ciò che ci è stato
dato in un unico momento di verità.
Pratichi la sobrietà, pochi nomi
di vivi, ancora ostacoli, non era
dunque altro che un risultato
a metà: le forze in bilico, prima
sopra, poi sotto nel manifesto
scendere scendere dove puoi trovare
la vecchia casa, il vecchio orologio,
il tavolo di lavoro, l’autobus delle otto,
tutta la vecchia, inservibile staffetta,
ma dentro un cerchio miracolato
di misura, un vetro di smeriglio,
al di qua.
 
 
 
 
 
 
A te, nel giorno un luogo ritrovato,
uno stato della mente, un albero, il suo rimando
e l’ombra quieta che mi accompagna. raro sapere
e più raro l’incanto che di porta in porta sfugge
nel suo farsi radice e sentimento certo. Solo di me
nel passo e sempre in alto, quello che è me chiuso,
insidiato. Volevo quando ho chiesto e il chiesto
è andato.
 
 
 
 
 
 
Ma ciò che più m’insidia e tormenta,
lo vedi, eravamo liberi e felici nei campi
della giovinezza rapita. E scavi tra le zolle
il fortunale che trasporta l’acqua, la pietà
se al mio occhio giunge il tuo ramo ancora fresco.
Tutte le anime del mio giardino e le tue;
tutto un farsi e disfarsi d’azzurro e grigio
e poi ancora d’azzurro; e ancora l’ombra
che seguo, la mia, la tua, andare e tornare,
che già vuol dire la forza e del fatto
che avrò voglia, coraggio e armonia
 
di perdermi nel tuo cielo puro.
 
 
 
 
 
 

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foto di Dino Ignani

Alberto Toni (Roma, 1954 – 6 aprile 2019) si è laureato all’Università La Sapienza di Roma in Lettere con una tesi sull’opera di Sandro Penna. Negli anni ’80 ha partecipato a numerose letture pubbliche, tra cui il Festival Internazionale dei Poeti del 1984 nell’ambito dell’Estate Romana e ha pubblicato su diverse riviste di poesia, tra cui Nuovi Argomenti, Arsenale, Prato Pagano, Tabula (con una prefazione di Amelia Rosselli). È autore di varie raccolte di poesia, narrativa, saggistica. Tra queste, per la poesia: La chiara immagine (Rossi & Spera 1987, Premio speciale opera prima L’isola di Arturo – Elsa Morante), Partenza (Empirìa 1988), Dogali (Empirìa 1997, Premio Sandro Penna), Liturgia delle ore (Jaca Book 1998, Premio internazionale Eugenio Montale), Teatralità dell’atto (Passigli 2004, Premio Pier Paolo Pasolini), Mare di dentro (Puntoacapo Editrice 2009), Alla lontana, alla prima luce del mondo (Jaca Book 2009, finalista Premio Brancati, Premio Camaiore, Premio Dessì), Democrazia (La Vita Felice 2011), Un padre, in Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori 2011), Polvere, sassi, oli (Il Bulino 2012), Mare di dentro e altre poesie (LaRecherche.it in collaborazione con Poesia 2.0, 2013), Et allons (Edizioni Progetto Cultura 2013), Stone Green. Selected Poems 1980-2010 (Gradiva Publications, New York 2014, traduzione di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti), Vivo così (Nomos Edizioni 2014, secondo premio Pontedilegno Poesia 2015; finalista premio Nazionale Frascati Poesia Antonio Seccareccia), Il dolore (Samuele Editore 2016, finalista al Premio Camaiore 2017), Non c’è corpo perfetto (Algra Editore 2018). È stato anche scrittore di teatro. Ha tradotto, tra gli altri, testi di E. Dickinson, T. S. Eliot, M. Leiris. Ha scritto di critica letteraria su periodici e quotidiani. Il 18 agosto 2016 a Ponte di Legno è stato inaugurato il sesto Totem della poesia con un suo testo intitolato Legno. È presente in varie antologie in Italia e all’estero: del 2018 La lengua incansable. Poesía italiana, 10 voces contemporáneas (Buenos Aires Poetry, a cura di Alessandro Canzian, traduzione di Antonio Nazzaro).