Zebù bambino, Davide Cortese (Terra D’Ulivi, 2021).
Non è un caso che la nuova collana poetica della casa editrice Terra D’Ulivi, curata da Giovanni Ibello e chiamata Deserti luoghi in omaggio a Marina Cvetaeva, inizi con una plaquette dedicata a “Zebù bambino”, scritta dal poeta Davide Cortese. L’infanzia si manifesta nella sua folgorante epifania di crudeltà, appare come un limbo metafisico in cui convergono sacralità e miscredenza in un tempo decurtato della durata attraverso l’esperienza del dramma: “Scoccano insieme/la mezzanotte e il mezzogiorno. /E’ l’ora di un eterno crepuscolo./Due miei volti si specchiano/nelle ginocchia sbucciate/del demone bambino”. Versi succinti, all’interno di laconiche strofe, esprimono nella brevitas la tensione all’indecifrabilità esistenziale. Il rimema affranca la semantica dell’opera da ogni scolasticità per restituire l’impronta virginale dello stile di Cortese a una piena e spietata ironia della parola: “Tatua fiori di melo e serpenti/sul seno di plastica di Maria./Poi rosicchia quel seno coi denti./Succhia il latte che finge vi sia”. Dalla frugale descrizione del comportamento psicomotorio del piccolo diavolo affiora una cantilena minacciosa che sincretizza un linguaggio apparentemente infantile con immagini grottesche ed evocative di una insidiosa ambiguità ermeneutica: “A tutte le sue bambole mozza la bella testa./Mangia gli scarafaggi invitati alla sua festa”. Le comuni e conosciute abitudini dei bambini vengono trasfigurate in rituali oscuri, con una particolare attenzione autoriale alla dimensione fonologica del gesto e alla dinamica psichica del lessema nella loro scomposizione simbolica: “Piace la cioccolata /al piccolo demonio/non dividere in sillabe/la parola abominio” e ancora “Non vuole saperne d’a, e, i, o, u./ Ama la ricreazione/il piccolo Zebù”. Lungo tutta l’opera sembra echeggiare un quesito che attanaglia il lettore: esiste una radice di ingenuità nella violenza? Il raccoglimento intimistico e la rielaborazione etica del comportamento umano avvengono nel segreto della notte, una notte che lascia andare la tenebra verso la luce e si riappropria della visione intera: “Le mani che di giorno hanno picchiato/al buio le giunge in preghiera./ Zebù si finge pio”. Oppure è la bontà una sibillina illusione contemporanea? Una nuova domanda insorge nell’ormai lacerata quiete giornaliera: il fenomeno della nascita ha un legame ancestrale con la dannazione? Se l’infante può guardare “intrecciati e nudi/i genitori di Gesù”, allora forse la mitologia antropologica e religiosa dell’uomo non è stata del tutto sincera e la luce non è così diversa dalla tenebra. Ogni piccolo demone è fragile, spaurito e insicuro, sembra quasi umano: “Nessuno lo vede e piange/nel silenzio che fa spavento”. Il piccolo Zebù ha un futuro di forza e bellezza e, come tutti gli altri bimbi, attende di fare breccia “nel cuore di Gesù”, avendo imparato dagli uomini l’arte della crudeltà e la finzione della guerra. Cortese, con il suo linguaggio di perpetua tensione all’enigma ontologico, sembra voler ispirare lo scioglimento dell’antinomia tra tenerezza e ferocia ma è proprio all’apice di questa suggestione filosofica che ci svela la necessaria vocazione umana alla loro insopportabile coincidenza.
Gisella Blanco
Scoccano insieme
la mezzanotte e il mezzogiorno.
È l’ora di un eterno crepuscolo.
Due miei volti si specchiano
nelle ginocchia sbucciate
del demone bambino.
Gioca ai dadi e con le bambole
il piccolo Zebù.
A una ha dato il nome
della madre di Gesù.
Tatua fiori di melo e serpenti
sul seno di plastica di Maria.
Poi rosicchia quel seno coi denti.
Succhia il latte che finge vi sia.
Piace la cioccolata
al piccolo demonio
non dividere in sillabe
la parola abominio.
Vuole il gesso nero
per scrivere alla lavagna.
Manda al cimitero
la maestra che si lagna.
Non vuole saperne d’ a, e, i, o, u.
Ama la ricreazione
il piccolo Zebù.