Wallace Stevens

Wallace Stevens
 

È stato grazie a Giovanni Raboni se oggi conosciamo l’opera di uno dei giganti del Novecento americano: nell’84 disse a Massimo Bacigalupo di tradurre il poeta. Raboni, che aveva tradotto Proust, parlava a ragion veduta. Il mondo come meditazione è un libro, senza tema di smentite, a dir poco stupendo. È un Guanda del ’98. Due fuochi si irraggiano dalla pagina: la poesia come conoscenza e le cose in sé che rivelano il proprio volto: il mondo, appunto, e la meditazione poetica.

In versi spesso chiusi si apre il pensiero, e un ragionare di idee e forme luccicose del vero, si danno la mano a disegnare il doppiofondo del mondo.

Scritte negli ultimi 6 anni di vita con un mannello di righe postume, Wallace Stevens (1879/1955) era un sacerdote della poesia.

Tema ricorrente: la vecchiezza, ma anche la poetica e un bilancio del proprio fare.

Avvocato, un posto di responsabilità, componeva nella mente i suoi versi nelle passeggiate mattutine. Nel suo sangue, si mescolano le provenienze più disparate dell’Europa degli antenati.

Pierangela Rossi

 
 
 
 
Non idee della cosa ma la cosa in sé
 
Al primo finire dell’inverno,
a marzo, uno stento grido da fuori
sembrava come un suono nella sua mente.
 
Sapeva di udirlo,
un grido d’uccello, all’alba o prima,
nel vento di inizio marzo.
 
Il sole sorgeva alle sei,
non più un pennacchio malconcio sulla neve…
Doveva essere fuori.
 
Non veniva dal vasto ventriloquo
della cartapesta stinta del sonno…
Il sole stava venendo da fuori.
 
Quello stento grido… era
un corista il cui sol precede il coro.
Era parte del sole colossale,
 
circondato dai suoi anelli corali,
ancora lontano. Era come
una nuova conoscenza del reale.
 
 
 
 
La poesia che prese il posto di un monte
 
Era là. Parola per parola,
la poesia che prese il posto di un monte.
 
Ne respirava l’ossigeno
persino quando il libro stava voltato nella polvere del tavolo
 
gli ricordava come avesse avuto bisogno
di un luogo da raggiungere nella direzione sua,
 
come avesse ricomposto i pini,
spostato le rocce e trovato un sentiero tra le nuvole,
 
per arrivare al punto d’intersezione giusto,
dove sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:
 
la roccia esatta dove le sue inesattezze
scoprissero infine la vista che erano andate guadagnando,
 
dove potesse coricarsi e, fissando il mare in basso,
riconoscere la sua casa unica e solitaria.
 
 
 
 
Angelo circondato da paesani
 
Uno dei paesani: C’è forse
un benvenuto alla porta cui nessuno viene?
 
L’angelo: sono l’angelo della realtà,
visto un attimo affacciarsi sulla porta.
 
Non ho ala cinerea né abito smagliante
e vivo senza una tiepida aureola
 
o stelle del mio seguito, non per servirmi
ma del mio essere e del suo conoscere, parti.
 
Sono uno di voi ed essere uno di voi
vale essere e sapere quel che sono e so.
 
Eppure sono l’angelo necessario della terra,
poiché nel mio sguardo vedete la terra nuovamente,
 
libera dalla sua dura e ostinata maniera umana,
e nel mio udire, udite il suo tragico rombo
 
liquidamente sollevarsi nei suoi liquidi indugi,
come acquee parole nell’onda: come sensi detti
 
con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,
io stesso, una sorta di figura approssimativa,
 
una figura intravista o vista un istante, un uomo
della mente, un’apparizione apparsa in
 
apparenze tanto lievi a vedersi che se appena
volgo la spalla, subito, ahi subito, svanisco?