Viaggio del sangue, Zingonia Zingone (Capire Edizioni 2020).
Affrontare l’esistenza, o la consapevolezza dell’esistenza, di bene e male, di caos e illuminazione, è una delle questioni che più comportano problemi sia dal punto di vista filosofico sia dal punto di vista dell’approccio prettamente quotidiano.
Un approccio e un problema che comunque continua a ripresentarsi nella storia, come se l’affrontare l’esistenza delle due definizioni sia cosa inevitabile quanto il cibarsi. Ma è fin dalle definizioni che si presenta la contraddizione: cos’è il bene? Cos’è il male?
L’esistenza presunta o solo ipotizzata per astrazione, di un Dio, un poco risolve la questione. Perché come bambini deleghiamo qualcun altro a dire cosa sia bene e cosa sia male. Ecco quindi il concetto di peccato, che è sostanzialmente sinonimo di disubbidienza. Perché se Dio fornisce le definizioni esatte, e le istruzioni per vivere all’interno di una realtà fatta di leggi (e perché non dovrebbe essere così? Esistono le leggi della fisica, della costituzione profonda della materia, siamo quindi in una realtà immersa e gestita da regole e leggi specifiche), ecco allora che disubbidire significa andare contro la costituzione della realtà. Con le inevitabili conseguenze.
Ma l’uomo ama opporsi. A volte per puro spirito polemico a volte per presunzione. La metafora del peccato originale questo ci dice: vogliamo essere capaci di tutto, di sapere tutto, senza poter essere effettivamente in grado di reggerne il peso che ne deriva.
E quindi abbiamo la storia umana e il mondo. Che indiscutibilmente ci insegna, volenti o nolenti, che non siamo affatto in grado di gestirci. Ma non come bambini che cadono dalla bicicletta e si fanno male e necessitano di un padre, piuttosto come uomini che fagocitano, distruggono, uccidono tutto e tutti continuando a dire che è l’unico modo possibile per vivere.
A questo segue un’altra definizione, che è quella di salvezza. Definizione che tra l’altro porta in sé una contraddizione enorme, perché le salvezza è necessaria per chi ha creato il problema, l’uomo, e non per chi può salvare.
E da qui la domanda evangelica: perché non scendi dalla croce e salvi te stesso? Che dimostra tutta la presunzione umana di non capire di avere bisogno di un qualcosa che per l’altro (chi salva) è assolutamente non necessario.
Ma questo porta a un’ulteriore definizione conseguente la salvezza: il dono. Perché se mi viene data una cosa senza che l’altro abbia necessità di darmela, ma anzi rispondendo a una mia precisa esigenza che magari io nemmeno riconosco di avere, ecco allora che parliamo di dono, che poi si lega a un altro termine chiave: il per-dono.
Dono e per-dono acquisiscono poi, per concludere questa mia premessa al libro Viaggio del sangue di Zingonia Zingone (Capire Edizioni 2020), una particolarissima importanza ed evidenza nel momento in cui si riscontra che essi non vengono dati, ma sono già stati dati.
Viaggio del sangue è infatti un’opera che scopre che la possibilità della salvezza dell’uomo è già intrinseca nell’uomo stesso, è parte della sua realtà e natura. Un libro dedicato al figlio ma non solo, capace di raccontare anche delle esperienze dei detenuti, di sé, del mondo che esiste.
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Per comprendere meglio quest’opera di Zingonia Zingone bisogna fare un passo indietro. Di lei, conoscendola e stimandola profondamente da anni, ho già scritto e riflettuto. Su I naufragi del deserto (Edizioni della Meridiana 2015, la recensione qui) il prefatore Davide Rondoni così introduceva il volume:
Poesia sapienziale o autobiografia in gran velame? Cosa ci dona questa poetessa cosmopolita e avventurosa, con i tre quadri scanditi dai versi dell’antico poeta scettico ed elegante? Cosa si celebra, con andamento sontuoso e visionario nei tre quadri, le tre figure? La vita cerca la vita, e nei tre racconti, malinconici e luminosi, Zingonia Zingone crea tre ritratti di figure immerse nel rischio della vita che può perdersi, che può essere cancellazione del destino invece che suo compimento.
Volume che narrava tre miti, L’oracolo della rosa, Le campane della memoria, Il fiume nascosto, di cui rispettivamente le figure di Khalil, Soraya, Bâsim. Khalil era il principe schiavo del desiderio d’amore. Soraya era una bambina abusata dal padre e poi venditrice di se stessa, relegata nelle zone più oscure del desiderio umano. Bâsim era un bambino che presentava la realtà del desiderio come mancanza di sua madre per suo padre. Un desiderio vivo nello specchio della carne viva di Bâsim come ricordo e nostalgia. Ricordo che già al tempo avevo sottolineato:
Tre sezioni che parlano dello smarrimento (il naufragio) umano all’interno della complessità del desiderio e delle sue conseguenze, reazioni, nostalgie (il deserto). Dall’oracolo della rosa che canta la sacralità della donna che porta il seme dell’amore, alle campane della memoria che ne cantano la drammaticità, l’oscurità, e la liberazione che ascende a memoria (perchè anche la memoria è in fondo desiderio), fino al fiume nascosto che fa della viva memoria il segreto desiderio della donna, che poi nel figlio trova pace.
Il principe ama la rosa e conosce il suo aroma.
Con minuzia percorre il suo sinuoso contorno.
Gioca con la corolla, attraversa il monte,
morde il frutto spaccato, il fico i coralli.
Bagna il volto nelle onde, affonda
la sua carne nella carne,
demonio! L’urgenza mendicante.
La sua malefica impronta è il ricordo.
Il principe non conosce l’essenza,
il mistero; è solo un vampiro
che mendica amore
non sa altrimenti.
Di giorno perde la sua corona,
ritorna alla solitudine,
corteggia il ricordo.
Ostenta i petali della sua nostalgia.
Soraya vende il suo corpo, compra
allegria. Vende allegria, compra
oblio. Si libera dal presente
inchiodandosi alla croce della lussuria,
martire del piacere e della vertigine.
Erotismo, fantasma che la abita
e spaventa: seme catapulta
che l’ha scagliata in questo mondo.
In Andalusia vive un giovane
di nome Bâsim. Sul suo volto
splende il sorriso del futuro.
S’inchina all’altare della Concezione.
Nella destra, un rosario.
Grano dopo grano, disfa
la lunga tela. Libera
la farfalla prigioniera nel deserto.
(da I naufragi del deserto, Edizioni della Meridiana 2015)
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Ne Le tentazioni della luce (Edizioni della Meridiana 2017, la recensione qui) invece ci trovavamo di fronte a una confessione come rapporto con la Luce che nei versi acquisiva man mano diversi nomi, tra i quali purezza. Un libro fondamentalmente d’amore di cui ricordo avevo scritto (e che ora ci torna utile a capire quest’ultima opera di Zingonia):
Perché in effetti amare il mondo è toccarlo, è conoscerlo, l’epifania che la Luce può produrre nel cuore umano è la pacificazione di sé, l’incontro con il sé che è conoscenza, accettazione. La spiritualità non è ascesi mistica ma affondo luminoso nelle proprie carni nella scoperta della bellezza della pelle dell’uomo, che è la pelle del mondo. Nella consapevolezza che ogni relazione con l’altro può portare alla Luce se vissuta, nei confronti di sé e dell’altro, come confessione. Nella certezza che mondo e uomo non sono separati perché la pienezza del mondo è la pienezza dell’uomo. Attraverso la Luce. Attraverso l’amore.
lui sospirava
senza sapere perché
poi venne l’amore dei corpi
che colmava le lagune
con acqua salata
distribuiva pani e pesci
si credeva una noria
un giorno
il pozzo si seccò
i pesci
mangiarono i pani
aveva ragione colui
che scalzo saliva la montagna
senza sapere perché
è pesante questo esilio
questa mania di reputarmi un angelo
e portare a spasso un corpo fertile
inutile
tra faraglioni avidi di schiuma
issare le ali e migrare?
restare
dici
nel vuoto
piacere delle tue mani
(da Le tentazioni della luce, Edizioni della Meridiana 2017)
*
Le tematiche care a Zingonia Zingone sono l’amore, il desiderio, la possibilità della luce ma senza misticismo, con un’esperienza forte e intensa del mondo che rende il mondo il fine ultimo, la sua illuminazione l’approdo.
Ma se l’amore e il desiderio, sia esso carnale che spirituale, sono appunto incontri durante il tempo, a tratti slanci a tratti deserti, in questo Viaggio del sangue che ripercorre gli anni della nascita e crescita del figlio fino all’adolescenza, si scopre che il dono e per-dono erano già stati dati da un tempo immemorabile. Erano già nel sangue prima ancora del bisogno di essi.
L’amore che emerge nella nascita e nella crescita del figlio, elemento sul quale per natura abbiamo solo un minimo controllo, diventa motivo di epifania e stupefazione. Perché nella sua carne, nella sua esistenza, nelle sue abitudini, tutto è già risolto. Non come peso e responsabilità ma come eco di una risposta già data e che è la natura intrinseca e unitaria dell’uomo.
Non a caso i temi dominanti sono il tempo, l’unità che si scopre nella dualità (due che diventano uno nel figlio, ma anche madre che diventa due dentro il suo corpo e poi, nella crescita del figlio partorito, torna a essere un uno ma più ampio), la redenzione, la grazia.
Una grazia che non è solo legata all’esistenza del figlio, ma che scopre l’illuminazione della vita anche dove apparentemente c’è ombra. La sezione dei carcerati infatti ripercorre la colpa, il pentimento, la scoperta che dentro di sé c’è la possibilità della purezza (termine, quest’ultimo, più presente in Le tentazioni della luce, ma a mio parere qui proposto come sinonimo). Così come una donna può esplodere nel suo corpo una vita, così un uomo in prigione può scoprire dentro di sé una nuova innocenza, una nuovo desiderio di purezza/redenzione.
In questa sezione inoltre c’è un punto di congiunzione che ben vale il libro. La madre racconta al figlio l’esperienza dei carcerati che visita, le sue perplessità e difficoltà, e il figlio risponde: accompagnali come fai con me / ogni volta che cambio scuola.
Frase che apre due grandi tematiche insite in tutte le pagine del libro. Da una parte la consapevolezza che abbiamo bisogno di essere accompagnati, che senza tale responsabilità e fiducia possiamo ben ritornare nel deserto e nella colpa. Da un altro punto di vista la consapevolezza aspra e dura che la grazia, negli uomini, è cosa molto fragile.
L’autrice si domanda: potrà un giovane / tenere pura la sua via? Ed è la domanda che accompagna tutti gli uomini, giovani e adulti, il bisogno di un’ancora, di un punto d’appoggio che, oltre la maternità, Zingonia Zingone chiama radice.
*
Libro capace anche di accenni di profondissima tenerezza materna, ad esempio quando l’autrice osserva il figlio giocare a calcio, oppure quando soffre per la febbre.
Libro infine che osa, non so se consapevolmente o inconsapevolmente, un messaggio di tale portata che considero capace di demolire ogni presunzione umana, almeno in chi lo vuole considerare davvero. Perché quando il figlio dice alla madre accompagnali come fai con me / ogni volta che cambio scuola in realtà sta riconoscendo alla madre il fatto che lo accompagna. E la sta ringraziando.
Parafrasando: la tua esistenza mi salva, e tu mi ringrazi?
Alessandro Canzian
Sento voci chiamare il poema
martellare di notte le cicatrici del sonno
aprire spazi nel tempo
svelare il clamore
della carne che fummo.
Io desideravo appartenergli
come un passero al nido
e da quel nido tu
sei entrato nell’albero
sempreverde
della sua genealogia
Tra le spighe bionde
si scorgono rossi e scarni capibanda
al comando della contaminazione
succhiare dalla terra ogni sostanza
svuotando le ossa dei vicini.
Riso rosso che infesta le risaie.
Grani colore del male
sparsi dal male.
Sangue che oggi mi lega
al suolo maledetto
e sacro della mia rinascita.
Lui viene con la sua luce
nella contraddizione.
In carcere
le poesie precipitano
in fondo allo stagno
i lupi in agguato spiano i cuccioli
e affondano i canini calunniosi
nella carne tenera della redenzione.
Chi potrà salvare la verità
inchiodata nei torsi sanguinanti?
Persa in mezzo ai boschi di tatuaggi.
Sono alte le mura del ventre
che trasforma l’embrione sviato.
Gravida di emozioni e promesse
porto a casa le loro parole.
Tu ascolti ogni battito
i sospiri della scarcerazione:
«accompagnali come fai con me
ogni volta che cambio scuola».
Ti senti fratello
nella mia rinnovata maternità.
Sei così lungo ormai
disteso su una branda di pelli
lontano dall’emisfero del padre
l’aurora boreale
sveglia il mio sonno
fuochi d’artificio i pensieri
le paure: potrà un giovane
tenere pura la sua via?
In cielo sfilano i re magi
con i loro mantelli accesi
verdi e rosa nel buio
campo magnetico della terra
sciabole e doni dorati.
Sul ghiaccio una corona di legno
avvolge il tuo polso
i tuoi sogni. Un abbozzo di sorriso
inconsapevole
assopisce tutti i fuochi.
Le tue ginocchia flesse
l’allungo
una molla schiacciata che salta
e libera in aria
tutta la sua potenza. In volo
acchiappi il pallone sparato
nell’angolo della porta
lo tiri verso il petto
e precipitando nell’erba fangosa
lo stringi al cuore come fosse
la ragazza che sogni.
«Grande!» l’esultanza
sugli spalti un mistero
gira tra le mie dita
annuncia l’impossibile.
Da sempre tu
pari i colpi e ridi
«sto in porta
perché in campo sono scarso»
nel fondo del tuo sguardo
qualcosa di serio
richiama la radice.
L’albero eterno
ha le radici in cielo
e i rami in terra
nel suo estendersi
trasfigura quel Sisifo che siamo
in un cireneo ignaro
che porta sulle spalle
la sua propria redenzione
nascere
attraverso il figlio
nell’unico padre
libellula in fiamme
che volteggia nel cielo infuocato.