Un tragitto che disegna il cielo – sulla poesia di Franco Buffoni

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JUCCI, TURING, MILANO, ROMA – UN TRAGITTO CHE DISEGNA IL CIELO
di Sandro Pecchiari

 

Franco Buffoni, poeta, traduttore e accademico italiano, dopo la stampa del volume Poesie 1975-2012, Oscar Mondadori, contenente tutti i suoi testi, consultabili anche nel Fondo Buffoni presso il PAD (Pavia Archivio Digitale), ha pubblicato tre raccolte di poesia: Jucci (Mondadori, 2014), Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli, 2015) e La linea del Cielo (Garzanti, 2018). Tre raccolte estremamente significative e pluripremiate.

Questi tre ultimi libri sviluppano e apparentemente concludono il percorso sviluppato nel periodo precedente: il filo conduttore e unificatore di queste tre ultime raccolte deriva e si dipana attraverso la gran ricchezza di tutta la sua produzione poetica, ma potremmo farlo partire da alcune pagine del romanzo Zamel (Marcos y Marcos, 2009) nel quale vengono evidenziati i processi di autolimitazione di una persona omosessuale. Il romanzo, oltre a essere un preciso viaggio nella letteratura gay e nella cultura queer, ripercorrendo anche la storia del movimento omosessuale italiano, oltre ai due aspetti antitetici dei due protagonisti Edo e Aldo che rappresentano due modi di vivere l’omosessualità, l’uno proiettato in un futuro libero ma ancora tutto da costruire, l’altro nostalgico di un tempo meno confuso, quando i maschi erano maschi, le femmine stavano a casa, e dell’amore tra uomini non si stava tanto a parlare, ma si faceva, e zitti, come sottolineato negli articoli di Massimiliano Palmese e Claudo Finelli e quello di Luca Canali, descrive, nel capitolo sull’Insulto, il processo distruttivo che parte dall’esterno, dalla pressione sociale, dai luoghi comuni e dai cliché abusati che via via si interiorizza e ne danneggia la crescita, l’equilibrio e l’autostima. Buffoni scrive:

 

L’insulto è il primo e più dirompente mezzo di conoscenza che il mondo presenta all’omosessuale. Ancora peggio dell’insulto, è la barzelletta ascoltata da bambini in famiglia, la battuta del fratello maggiore,del cugino o persino del padre. Sono queste parole che per prime creano la nostra identità. Pettegolezzi, allusioni, insinuazioni che anche persone care, parenti stretti, lasciano cadere. Contro altri, magari, ma che tu – omosessuale – percepisci immediatamente come rivolte a te stesso.
(…) Se riconosci queste caratteristiche in te, devi negarle anche a te stesso, oppure occultarle. Crescere mentendo è una grande palestra di vita.(…) Crescere nel terrore di essere scoperti: (…) due parole, il tu dell’esclusione, la decisione immediata – accettazione o rifiuto – l’altrettanto immediata consumazione di un rapporto totale e senza baci.

 

In questa condizione psicologica sembra che nulla possa giungere dal mondo esterno che sia minimamente somigliante all’amore. La negazione di una possibile affettività porta gradualmente al rifiuto della stessa e al rifiuto di sé per difesa e finisce per generare un tasso altissimo di omofobia interiorizzata.

Questa difficoltà di accettazione di un possibile innamoramento e delle sue dinamiche di adattamento reciproco viene affrontata in Jucci, dove la quotidiana tenuta di un rapporto con la donna di cui Buffoni si innamora viene messo costantemente alla prova dai “tradimenti” con gli uomini. Questo innamoramento reciproco viene rinforzato e consolidato proprio da questo equilibrio precario e diventa una presa d’atto di identità reciproca.

 
 
Il lavoro di lima
 
Finché il ghiaccio regge, pensavamo
vedendo i due aggrappati alla banchina.
 
Eravamo già noi, lo sapevamo.
Iniziò subito il lavoro di lima.

 
Noi due tra i vasi sul balcone
A guardare insieme ad ammirare
Quel che riesce a fare la natura
Quando si attorciglia.
 
 

Jucci, laureata in tedesco, insegnante e ricercatrice, si occupava di etnologia e antropologia, entra nella vita del poeta nel 1969. Il poeta era sette anni più giovane di lei e nella sua fase di affrancamento da una famiglia rigidamente cattolica. Lei gli mostra una via diversa e le possibilità e potenzialità di differenti scelte e orizzonti.

Franco Buffoni racconta in questo romanzo in versi, che può venire considerato un vero e proprio romanzo di formazione, di questo rapporto con questa donna sensibilissima che si inanella con la presa di coscienza, e la manifestazione di impulsi e stimoli di una condizione omosessuale vissuta con tormento dentro un tempo e una cultura che la condannavano. Per dieci anni condividemmo libri e avventure, vacanze e scoperte: con lei studiai le lingue e le letterature, con lei divenni poeta e traduttore. Con lei scoprii il mio territorio – quello che fa da sfondo al Profilo del Rosa – dalle Alpi al lago Maggiore. Sul nostro amore l’ombra costante, assoluta, della mia omosessualità, che in quegli anni si concretizzava in numerosi, fugaci e solo fisici rapporti. Si era ancora nella fase della ricerca della “cause”, ci si chiedeva come si diventi omosessuali…

Ma lo stesso lavoro di lima reciproca porterà a delle scelte divergenti, dalla vita grigia dell’assuefazione della vita precedente, trasandata ma ancora educata all’impadronirsi di una via di colori più ampia e contrapposta che proprio Jucci gli aveva mostrato e alla comprensione che l’amore omosessuale può essere più appetibile di un amore eterosessuale, e metterà in perenne crisi e corto circuito questo rapporto, paradossalmente, proprio il meccanismo che pose Jucci al centro della mia vita, fu lo stesso che mi sottrasse a lei.

E ne avrebbe preparato la fine se non fosse stata dolorosamente accelerata dalla malattia e dalla precoce scomparsa di Jucci nel 1980 dopo alcuni mesi infami costellati di interventi chirurgici. Jucci è stata la protagonista di questo che l’autore chiama, “un amore stilizzato”, e che era stata in fondo un’anima guida, una candida figura irrinunciabile per un tempo non lungo ma essenziale nella vicenda personale e poetica di Buffoni.

La potenza del libro sta nel duetto costante tra le loro due voci: quella impossibile e lontana dell’amica ormai scomparsa, ma rediviva nei versi e tutta presente nella sua incisività di fondo; e quella di un io lirico inesausto, capace di arrivare alla definizione più ironica e corrosiva di sé, semplicemente materiale e immateriale insieme, come lei, facendo cadere tutte le maschere per mettere a nudo tutto quanto.

Come si legge in Come un eternit, l’ultima poesia della raccolta, non c’è nessuna perdita possibile: la perdita è già stata compresa, è come se fosse l’antefatto di tutto. Non c’è bisogno di ripeterla. Quello che conta è ciò che ancora, nonostante tutto, rimane.

 
 
(..)
Ma perché è ondulato il mio ricordo?
Come un eternit mi lavora alle tempie
E sotto il mento mi sorprende…
 
Perché io innamorata sono dentro di te,
Più ti scuoti per allontanarmi
Più io penetro in profondità.

 
 

Oltre ad essere un requiem che contemporaneamente è un omaggio alla memoria, è un libro in cui proustianamente la frontalità della scrittura può sperabilmente fermare l’usura del tempo in una collateral beauty intensissima e invincibile. Ma quello che sbalestra e coinvolge è il passaggio di consegne: avverrà poco oltre, quando sarà proprio la morte di Jucci ad ammonire il soggetto a preservare la propria, di vita: «Sei morta per costringermi/ Al referto in carta velina,/ Per mandarmi in tempo alla tac/ E farmi operare/ Prima».

Durante un’intervista, Buffoni dice che Jucci è un testo uscito al momento giusto, nella situazione storico sociale che stiamo vivendo in Italia, in cui la questione dell’omosessualità è piuttosto attuale. Un argomento del genere, oggi, può essere colto anche da lettori più reazionari, perché è un modo per sentirsi à la page, all’avanguardia.

Con Jucci cade la parete che dava per impossibile un qualsiasi tipo di innamoramento, ma per affrontare di petto e neutralizzare l’educazione ricevuta e le figure dei genitori bisogna affidarsi a Avrei fatto la fine di Turing, raccolta che si concentra e riconsidera, per esorcizzarla e risolverla, la genitorialità vissuta con estrema difficoltà sia da punto di vista familiare che sociale.

La memoria dopo Jucci porta a riconsiderare à rebours le figure del padre e della madre proprie e nella letteratura, le moltissime figure presenti nella raccolta, i condizionamenti e le prudenze autoinflitte di quegli anni.

Nel libro ci si confronta, come scrive l’autore, con le strutture di pensiero delle religioni abramitiche, in particolare il binarismo sessuale e l’eterosessismo, oltre che a essere due tradizioni fondanti del nostro ordine sociale, hanno costituito fino al Novecento anche il sostrato del sapere medico-psichiatrico-psicologico e delle prassi cliniche che ne sono derivate.

E i danni e le sofferenze conseguenti.

La scommessa di vincere una sfida così azzardata è ispirata dalla figura di uno dei padri dell’informatica, il matematico, logico e crittografo inglese Alain Turing (1910-1954) con il suo contributo decisivo nel decrittare i codici segreti nazisti e quindi nel determinare le sorti della guerra, salvando così una umanità che poi l’avrebbe perseguitato. Un uomo, che avrebbe dovuto prendere un posto importante nei libri di storia assieme a Newton e Einstein, ma che invece fu accusato di omosessualità e obbligato a scegliere tra il carcere o la castrazione chimica. Dopo essere stato sottoposto a castrazione chimica, Turing morì suicida col cianuro.

La vergogna per l’ostracismo politico e sociale verrà solo in parte alleggerita, appena nel 2009, con le pubbliche scuse del primo ministro inglese Gordon Brown. Il royal pardon – il perdono reale, arriverà ancora più tardi. In quest’ultimo periodo si sta discutendo se mettere il volto di Turing nella banconota da 50 sterline.

Le incomunicabilità e conseguenti solitudini amorose pregresse quindi si spostano nell’inferno familiare. Il libro non a caso si apre con un prologo per “placare” Monaldo, il padre di Giacomo Leopardi. Monaldo è “il prototipo del padre autoritario che desidera il bene del proprio figlio; ma si tratta di un ‘bene’ di cui non si può discutere. È assoluto: prendere o lasciare. Dunque occorre fingere e poi fuggire, come fa contino Giacomo.

La storia personale di Buffoni si intreccia con la storia letteraria di molte figure storiche e della sua vita privata: al momento del suicidio di Turing nel 1954, Buffoni ci rivela che aveva iniziato a frequentare il primo anno della scuola elementare, con una anziana maestra fascista, figlio di due genitori educati dal cattolicesimo nel fascismo e dal fascismo nel cattolicesimo. Turing non mi salvò la vita allora. Come avrebbe potuto? Me la salva però oggi, continuando idealmente a darmi la forza di lottare nell’unico modo che mi sia congeniale: producendo arte.

Le figure dei propri genitori si alternano alle figure di genitori del mondo letterario con la consapevolezza che i genitori avrebbero comunque risposto in modo negativo. Buffoni sottolinea che suo padre, Ufficiale dell’Esercito Italiano, non sarebbe mai stato in grado di accettare l’ omosessualità del figlio e che – se esplicitata – avrebbe certamente deciso di farlo “curare”, complice la pavida e sottomessa acquiescenza della madre. La cura in quegli anni consisteva in elettroshock atti a produrre coma insulinici. Inoltre a quell’epoca si diventava maggiorenni a 21 anni.

 
 
Avrei fatto la fine di Turing
 
Avrei fatto la fine di Alan Turing
O quella di Giovanni Sanfratello
In mano ai medici cattolici
Coi loro coma insulinici
E qualche elettroshock.
Perché era un piccolo borghese
Il mio padre amoroso
Non si sarebbe sporcato le mani.
Controllando l’impeto iniziale
Vòlto allo strangolamento
Del figlio degenerato,
Ai funzionari appositi
Avrebbe delegato
La difesa del suo onore.
 
 

Buffoni scrive, come aveva già chiarito in Zamel, dunque capii che dovevo mettere in atto la massima di Cartesio “Bene vixit qui bene latuit” (Bene visse colui che si nascose) che riprende l’epicureo Lathe Biosas (Vivi nascosto). Il silenzio, l’astuzia, e poi appena te lo puoi permettere: la vendetta, sotto forma di arte e di militanza.

Parlando delle obbrobriose cure contro l’omosessualità, nella poesia si incontra la figura dello scrittore, drammaturgo, intellettuale antifascista e partigiano, Aldo Braibanti, di cui Buffoni aveva già parlato in Zamel: negli anni Sessanta Braibanti si lega a Giovanni Sanfratello, un ragazzo molto più giovane di lui, di 23 anni, proveniente da una famiglia fascista e cattolica. Braibanti è, in assoluto, il primo omosessuale condannato in Italia per “plagio” a nove anni di carcere. Un reato inserito nel 1942, in piena epoca fascista, nel Codice Rocco, reato che, dal punto di vista formale, non intende punire l’omosessualità in quanto tale, ma che di fatto la punisce, proprio attraverso “il plagio”…

E quando Giovanni Sanfratello (che aveva 4 anni più di me) venne rapito dai famigliari, caricato a forza su un’auto e portato in una clinica per malattie psichiatriche (dove venne “curato” e ridotto allo stato vegetale) io avevo 16 anni. Il processo Braibanti me lo ricordo bene. Insieme all’assassinio di Pasolini ebbe in Italia la stessa funzione che in Francia ebbe il colpo di pistola Verlaine/Rimbaud, che in Germania ebbe l’affaire Krupp, che in Spagna ebbe l’assassinio di Lorca.

Amaramente Buffoni conclude: Noi sempre in ritardo, anche nelle situazioni catartiche.

La condanna di Aldo Braibanti suscitò ampia eco in tutta Italia. A favore di Braibanti si mobilitarono intellettuali e scrittori, Alberto Moravia, Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini e numerosi altri uomini di cultura. Il processo fu definito “di natura politica”.

Queste storie, che in quel periodo non aiutavano di certo la vita di molti omosessuali ancora chiusi nell’armadio, vanno raccontate ora e sempre perché ai giovani è necessario far sapere loro che i diritti e le libertà non sono mai acquisiti una volta per tutte, che occorre sempre stare in guardia, che il catto-fascio-leghismo sempre rinnovantesi è in agguato. Non ci si può distrarre.

Nel suo libro entra la figura di Vittorio Sereni, il padre poetico di Buffoni. Le loro biografie sono perfettamente sovrapponibili: Sereni nacque nel 1913, mio padre nel 14, Sereni morì nel 1983, mio padre nell’80. Entrambi ufficiali dell’Esercito Italiano, entrambi prigionieri dal 43 al 45 (mio padre in Germania, Sereni nel Maghreb). Entrambi autorevoli e anche un po’ autoritari; uomini che indossavano camicia bianca e cravatta anche per andare allo stadio, e pantaloni con la piega… Tanto è vero che in alcuni testi poetici le due figure mi si sovrappongono.

 
 
Vittorio Sereni ballava benissimo
 
Vittorio Sereni ballava benissimo
Con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
E di piega data al pantalone,
Perché quella era l’educazione
Dell’ufficiale di fanteria,
Autorevole e all’occorrenza duro
In famiglia e sul lavoro,
Coi sottoposti da proteggere
E l’obbedienza da ricevere
Assoluta: “È un ordine!”,
Riconoscendo i pari con cui stabilire
Rapporti di alleanza o assidua
Belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.
 
 
 
 
L’odore di mio padre
 
Cercavo i documenti della casa
Un antico rogito con mappa,
In una borsa chiusa da trent’anni
C’era il suo odore
In divisa da ufficiale,
Saltava fuori fresco
Mi copriva
Di amore singolare.
 
 

Le ultime sezioni di Avrei fatto la fine di Turing, sono un canto d’amore lirico dedicato alla madre. La madre di Buffoni, dopo un matrimonio durato 33 anni, sopravvisse alla morte del marito per ulteriori 30 anni, appoggiandosi via via sempre di più al figlio. Io fui sempre protettivo nei confronti di mia madre, come per altro lei fu con me. Ma la sua educazione di fondo (pur nell’estrema bontà e mitezza) era pur sempre catto-fascista. L’amore certo vinceva su tutto, ma mia madre non riuscì mai a fare lo scatto razionale dell’affrancamento dall’edizione ricevuta.

 
 
Nella poltrona che ti conteneva
 
Nella poltrona che ti conteneva
La sera prima di morire
Ho trovato una corona del rosario
Finita sotto il cuscino.
Forse all’improvviso ti eri volta
Verso la porta: arrivavo
Ogni tanto, e tu
Cambiavi espressione:
Ti tornava la luce negli occhi,
Uscivi dalla poltrona.
 
 
 
 
Dulcissima
 
Quando non ci saranno più le mie chiamate
Tra le sette e le otto
E se ritardo un labbro che leggermente trema.
 
Quando non sarai più una vecchia sola
E io al ritorno non dovrò più correre
Per te giù in farmacia
Prazene e Lexotan
Con la ricetta ripetibile
Il Karvezide con la ricetta nuova
E già che ci sei un Benagol
E la Borocillina.
 
Quando non dovrò più tenerti
Bassa la pressione
Quanto tempo che avrò
Per scrivere di te.
 
 

La Linea del cielo si presenta come un libro estremamente sfaccettato, suddiviso in due parti principali, la prima suddivisa a sua volta in altre sette sottoparti, la seconda in altre sei.

Sembra di percorrere un grand tour Milano-Roma che riconsidera e focalizza i diversi aspetti di crescita poetica di Buffoni, sicuramente un gioco di omaggio ai maestri, tributo implicito ai grandi autori della poesia italiana da Sereni a Giudici, da Erba a Raboni, da Bertolucci a Risi, a Zanzotto.

Ma non solamente questo, il libro può essere considerato un omaggio alla fusione di culture diverse in una emozione più ampia, privata di caselle e confini regionali e nazionali, anche grazie alle armi di tutta una vita di esperienze.
Ed è anche un percorso tra la storia individuale e la Storia, perché spesso Storia e storia sono interscambiabili.

La linea del cielo espande il senso di fuoriuscita inaugurato vent’anni prima. A risultare trasformato è il «monocromo grigio», individuato ancora da Mazzoni come ultima evidenza di un percorso di scoperta e maturazione. Il Buffoni “maturissimo” di La linea del cielo conferma e supera quello “maturo” de Il profilo del Rosa con un’operazione che può essere interpretata proprio attraverso la lunga gittata degli anni trascorsi tra i due lavori. In primo luogo la dimensione della memoria manifesta un mutamento: dall’apertura dell’individuo alla storia si passa alla consapevolezza che la storia (l’alterità), con tutti i suoi “attimi”, è fondante per l’uomo.

Si potrebbe asserire che dopo la pacificazione con il passato complesso e sfaccettato di Jucci, la armonizzazione interiore oltre le dicotomie, il superamento delle asprezze genitoriali in una autorinascita equilibrata di Avrei fatto la fine di Turing, questo libro può essere interpretato come una sistemazione e pacificazione tra l’io individuale e collettivo.In Buffoni l’uomo è la sua storia ed è tutte le storie che lo hanno preceduto. E se l’uomo vuole avere consapevolezza di sé e del proprio esistere deve prendere atto di un percorso che è una composizione di intenzioni, di relazioni, di atti. Da questo nasce il mosaico di storie presenti in La linea del cielo.

 

La scelta del titolo merita di venire citata: spesso i titoli escono immediatamente, certi altri sono frutto di una lenta ricerca, alcuni invece vivono una vita più travagliata: il poeta ci narra che il titolo proposto a Garzanti era Codice Verlaine. Perché l’annuncio in codice dello sbarco in Normandia, trasmesso da radio Londra alla resistenza francese, corrispondeva all’attacco della Chanson d’automne di Paul Verlaine: “Les sanglots longs des violons de l’automne”. L’espressione “I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno” mi è sempre parsa quanto di più decadente e insinuante una mente snob potesse concepire per annunciare l’inizio della carneficina liberatoria, cui dovevano corrispondere da parte dei maquisard azioni di sabotaggio contro stazioni e depositi di munizioni, incroci stradali e ponti. Il messaggio trasmesso il 1 giugno con quel verso significava che l’invasione era imminente e sarebbe stata confermata dal completamento della lassa entro quarantotto ore. Ma il 3 giugno radio Londra – invece di scandire il seguito: “blessent mon coeur d’une langueur monotone” (mi feriscono il cuore d’un monotono languore) – ritrasmise l’inizio. Le avverse condizioni atmosferiche avevano costretto i comandi a rimandare l’attacco. Il fatto che migliaia di uomini pronti al sacrificio supremo siano rimasti per tre giorni fino alle 22.15 del 5 giugno in spasmodica attesa di un verso tanto languido mi sembra degno del Dormeur du val rimbaudiano.
Ma la proposta venne bocciata perché, dopo Codice da Vinci, i titoli con la parola codice si sono moltiplicati. Allora pensai al dualismo Milano/Roma molto presente nel libro: dalle guglie alle cupole come nel logo dei treni, quindi: skyline. Ma Il profilo del cielo non andava bene a me, avendo già pubblicato Il profilo del Rosa nel 2000 nello ‘Specchio’ Mondadori. Così sono pervenuto alla traduzione letterale: La linea del cielo.
Il logo Milano-Roma con lo skyline delle due città ci suggeriscono questa fusione di luoghi e di modi d’essere: se le mie moralità e i miei ideali si trovano maggiormente a loro agio nella linea appenninica, sottolinea Buffoni pensando a Saba, Penna e Pasolini, i miei sistemi tecnici e le mie norme operative rimangono saldamente legate a quella faccenda di laghi e di discorsi in un gran parco verdissimo che è la poesia in re, prosciugata e scabra, dei miei maestri lombardi. Per essere proprio precisi si tratta di una genealogia «tematica» più appenninica che lombarda, o meglio, è giuliano-friulana con Saba e il primo Pasolini, poi bolognese, quindi passa per la Perugia di Penna per giungere alla Roma di Bertolucci e Bellezza. Con sintesi efferata lo schieramento Saba-Pasolini-Penna-Bertolucci-Bellezza vs Sereni-Erba-Risi-Giudici-Raboni costituisce un organico tentativo di convogliare le poesie «lombarde» e le poesie «romane».

 
 
Codice Verlaine
 
Non siamo ancora partiti.
Perché solo nei fumetti
Clarabella può saltare lo steccato,
Tu, mucca normanna graffi il muso
E il vento tira dritto.
Dov’è l’autunno che volevo,
L’ultimo con la scala di pietra all’abbazia
In questo giugno di raffiche di pioggia?
Dov’è nascosto il Fall con i suoi swallows
Dove la season of mists delle brughiere?
Si estende da tempia a tempia
Il mio terrazzino di Elsinore,
Vi stendo i panni di un personale
Bucatino autarchico, niente lavanderia
Niente servizi prima dello sbarco.
Il costo di tutto questo è molto alto
In termini di nervi logorati
Alleanze e solidarietà, bassissimo
Per lo scarso uso di notizie.
Porcellana ceralacca lapislazzuli,
Voglio partecipare al destino dei popoli
Nel loro farsi, non alle loro vaste decadenze,
Mi verrebbe da esclamare pensando
All’uso estremo dell’autunno,
Oggi quattro giugno del 44.
 
 

Sono poesie che dimostrano che l’osservazione, il vivere, la consapevolezza dell’esistere attraverso la contemporaneità della storia e di tutte le storie si dichiara come azione non passiva ma volontaria, precisa:

  
 
Non lasciarci stare
  
Eh sì, la simbiosi da pulizia
Del Pluvianus aegyptius
Tra i denti del coccodrillo
Per quel processo di vaporizzazione
Che subiscono anche i peggiori sentimenti
Una volta ricondotti alle loro
Componenti biochimiche.
Ma tu vibra pesante pianeta,
Vibra e respira a fondo ai nostri piedi,
Salta e poi lasciati andare
Sul materasso morbido latteo-asteroidale.
Concimaci e se puoi
Disintegraci,
Non lasciarci stare.
 
 

Questa posizione attiva e volontaria entra nel merito dei diritti civili che non vengono definiti civili ma umani:

 
 
17 maggio
 
Il 17 maggio 1990 avevo quarantadue anni,
Quando nella nazione più avanzata del mondo
S’incominciò a poter dire e scrivere
Che non ero né ammalato né pazzo.
Da allora sono passati altri trent’anni
E oggi sono convinto quasi anch’io
D’essere umano. Evviva lo stato di diritto.
Evviva la Costituzione americana.
 
 

Ancora sulla storia/Storia/fuse assieme al mito, nell’auspicio della storia magistra vitae, che ultimamente sembra essere sconfessata e sotto attacco, Buffoni nella sua mitologia atemporale, scrive:

 
 
Stelle gialle e triangoli rosa
 
Pur se spaventati dal costo politico
Della verità, il ventisette di gennaio
Giurarono i sopravvissuti ai loro figli:
La prossima volta che verranno a prenderci
Non ci troveranno inermi.
Che cosa sono i «Pride», infine,
Se non il grido modulato di una comunità
Che desidera far sapere al mondo:
La prossima volta che verrete a prenderci,
Non ci troverete inermi?
 
 

Il dato storico attuale, corroso dall’attualità – la morte di Regeni – si salda nel mito, nell’assoluto. La poesia passa da Broch alle “Virtù e Principati” a Marco Aurelio all’Odissea, come se i secoli fossero alla fin fine una sintesi sul dolore. Buffoni vive da sempre la mitologia nella vita e la vita nella mitologia: oltre il paradigmatico testo incipitario del libro, col matrimonio combinato dagli dei tra l’Ercole e la Ebe nella brughiera di Somma Lombarda, spontaneo è quindi ambientare il ricordo di Regeni nell’isola a Nord di Ortigia finalmente libero dal dolore, come nell’Odissea. La poesia parla di Alessandro Rizzo, un compagno impegnato nel movimento LGBT, giornalista, generoso e gentile, morto di trombosi polmonare a trentanove anni a Milano nel gelido gennaio 2017. I genitori hanno donato le cornee e la pelle per salvare ustionati. Gli ultimi versi riecheggiano Odissea XV.

 
 
In morte di Alessandro
 
Soltanto chi si è trovato davanti alla porta
Dietro la quale viene torturato un uomo
Che senza io si avvierà alla morte
Sa cosa davvero sia l’assurdità,
Dicevo una sera ad Alessandro
Che mi accompagnava in Centrale
Citando Hermann Broch.
Parlavamo della fine di Regeni.
Adesso da lassù sento quasi
Il borbottio degli angeli più anziani,
E bisbigliano i più timidi,
Ma certi altri alzano la voce
Mentre i grandi candelabri e i ceri spostano
In excelsis, tra Virtù e Principati…
Uscir di vita, se ci sono gli dèi,
Scriveva Marco Aurelio nei Ricordi
Non è affatto cosa esecrabile,
Perché non è possibile che ti vogliano far male;
E se non ci sono, o non si curano delle cose umane,
A che varrebbe vivere in un mondo
Senza provvidenza e senza dèi?
Io non credo in nessun dio, Alessandro,
Per questo adesso ti so
In quell’isola a Nord di Ortigia
Chiamata Syria per il sole al tramonto,
Terra beata dove in tarda età soltanto
Si muore
 
Per la freccia gentile di Apollo in un istante
E senza provare dolore.
 
 

L’itinerario estremamente sfaccettato che ci propone Buffoni in questo libro si conclude con una poesia ironica, spietata e sorridente, un saluto che Buffoni concede al lettore, con Kavafis su un ginocchio e Orazio tra i capelli.

Sta qui, in balia del niente, in ballo con il tutto, il carisma e il fascino di questa raccolta e di tutto il lavoro di Franco Buffoni, che con spietata, ma anche amorevole pietà, guarda al mondo e all’uomo, senza assolvere nulla.

 
 
Doppio fregio
 
Per quando col mio corpo del ventesimo secolo
Sarò un relitto tra gli adolescenti
Delle classi del dodici e del tredici,
Come Caproni e Sereni, classi belliche.
Una vecchia iena di passaggio anche lì come dovunque.
Ma poi un tè con Cristina da Pizzano e Ildegarda di Bingen
Servito al tavolo da Jacques de Voragine
Con Eleonora d’Aquitania e Bianca di Castiglia
Nel divanetto accanto.
Perché, come per il navigante è dolce
L’approdo in un porto,
Fregio, doppio fregio, doppio doppio fregio,
Così per il calligrafo è la stesura dell’ultimo versetto,
Scrive e decora frate Agostino da San Gimignano
L’ultimo giorno di febbraio dell’anno 1299.