Un inverno tardivo – Michele Paoletti

Bozza automatica 1626
 
 

Continuano gli speciali di Laboratori Poesia. Questa settimana presentiamo Un inverno tardivo di Michele Paoletti.

 
 
 
 

UN INVERNO TARDIVO

 

Le verità le ammassiamo nella neve
Melania Panico

 
 
Cosa resta di una stagione
secca come il colpo di un fucile.
Una foglia calpestata appena,
un albero che non riconosco,
il cigolio dei cardini sul muro.
Una risata suona ancora
incastonata chissà dove.
Un’eco irripetibile cova il tempo
il suo segreto muto.
 
 
 
 
 
 
A dicembre insiste lo scirocco,
sputa il salmastro contro le finestre
mentre le rose si confondono,
si gonfiano di petali e marciscono.
Non avevamo posto per l’inverno:
tra le lenzuola, dentro i calzini,
in bocca vibrava il chiacchiericcio della sabbia.
Poi la tramontana ci brucerà le dita,
il gelo metterà tutto a tacere.
 
 
 
 
 
 
L’inverno irrigidisce le lenzuola
– mani bianche contro un bianco cielo
che conserva tutti i colori
nell’impasto delle nuvole
o forse nell’orizzonte accanto
per folgorarci tutti a primavera.
 
 
 
 
 
 
Mi resta un pugno
di fiori secchi nel cassetto
e un gelo piantato a fondo nelle ossa.
Ho perso le stagioni dispari,
quelle che fanno i conti con il sole
appeso sulla ruggine dei rami
conoscono ogni scaglia appesa al tronco,
e sanno cucire il crepuscolo alla sera.
 
 
 
 
 
 
 
Da qui le montagne sembrano sagome dure,
cartone tagliato da mani piccine
usando la scatola del panettone.
La bici è ghiacciata in giardino,
la camera d’aria abbozza un sorriso
al bimbo che si avvicina a guardare
con un filo di vento impigliato
nei polsini di un maglione già stretto.
Oggi è il trentuno, si strappa una pagina:
gennaio, domenica, qualcosa da cui
ripartire. Appendere al chiodo dei giorni
un fascio di fogli più chiari.
 
 
 
 
 
 
Si è sciolto l’ultimo nodo di neve:
la città è un diamante capovolto.
Se questo silenzio largo e piano
fosse una stanza
indugerei sulla porta a fissare
le pareti, l’assenza di mobilia
il filo scoperto della lampadina.
Quel punto di luce che riempie
la notte che mi porto nella gola.
 
 
 
 
 
 
Luce benedici il mio cortile
la fontanella, le pozzanghere che evaporano
nel sole. Lascia una carezza bianca
sulla legna accatastata
perché non abbia paura della fiamma
e renda l’inverno un po’ più chiaro.
 
Luce infiamma le finestre dure
le stanze dove fiorivano i segreti.
Adesso non riesco a chiudere le porte
i cassetti non stanno al loro posto
e quella mattonella in fondo trema,
 
Tutti quei passi appartenevano a noi.
 
 
 
 
 
 
Giocavano a bocce nel cortile
gridando bestemmie che facevano arrossire.
le mani che un tempo piegavano l’acciaio
gettavano a fatica
le sfere di legno sulla sabbia.
A nove anni si può già essere crudeli
con noi stessi
basta immaginarsi in quella calca di rughe
e non trovarsi.
 
 
 
 
 
 
È arrivato l’inverno senza freddo
ho ancora il sudore sulle mani.
Se tremo è perché vorrei scuoterti
le ossa contro
in un intreccio come edera sul tronco.
 
 
 
 
 
 
L’inverno è ancora aggrappato
alle grondaie, non volano gli uccelli
il mare è una lastra di silenzio.
Sorridi nonostante il freddo e
anche l’aria ride
per quel poco sole intorno.
Stiamo in un brivido di mondo
con il torace contro, a meravigliarci
di ogni costola, della perfezione ignorante
che ci tiene insieme.
Solo questo. Adesso.
 
 
 
 
 
 

a Sandro Pecchiari

Fuori i campi bevono la notte
mentre cerco di dare all’amore
la forma di una roccia
ferma nello stupore che hanno le cose
quando scoprono di non essere vive.
La distanza non è solo una misura
è assenza dilatata nel tempo.
Ti guardo uscire,
la nebbia inghiotte le auto e
dopo si fa chiaro
come nelle solite giornate di febbraio.
L’acqua nei fossi è ancora fredda
anche l’aria è fredda e pesa sui campi,
sulle cose oneste.
Loro sanno misurare la distanza
come pietre.
 
 
 
 
 
 
Nessun albero qui
soltanto verde d’erba
e un filo di nebbia che non sa
dove aggrapparsi.
In fondo una casa mi saluta
con una mano bianca
d’intonaco bagnato.
Sono vivi i rami, le foglie
ripetono il gesto di fiorire
ogni giorno. Un miracolo
muto, inaccessibile.
 
 
 
 
 
 
E se primavera
fosse anche questa luce
che aggriccia le persiane,
un vento infinito fra le fronde.
Se fosse una mano sul bordo
della sedia, la schiena inarcata
dei giorni, il mare abbagliato dal mattino.
 
Restami addosso finché la sera
non tracima dalle montagne fino
alla mia porta. Resta fino a svenire
mentre nelle case si accendono le lampade
e gli uccelli aggrovigliano voli
intorno alla macchia tremula del sole.