Il sonetto “ALLA SERA” fu pubblicato nel 1803 a Milano: nella sua dolcezza annichilisce il pur radicato nichilismo di Ugo Foscolo. “A Zacinto”, è soffuso di malinconia perché Tu non altro che il canto avrai del figlio (pubblicato nel 1803, composto tra 1802 e 1803 come “Alla sera”.) “In morte del fratello Giovanni” (composto nel 1802, pubblicato nel 1803, con riferimenti ai “Sepolcri, a Catullo, Tibullo, Petrarca, Virgilio, al Dante del “Convivio”) si duole accoratamente della fine di Gian Dionigi, tenente di artiglieria, uccisosi a Venezia l’8 dicembre 1801 per un debito di gioco. Il sonetto chiede alla madre, Diamanthina Spathis, al fratello di percorrere con lui questo tragico momento (Ma io deluse a voi le palme tendo).
Sono i tre più belli scritti dei “Sonetti”, tutti comunque di rara sensibilità insieme alla rara fattura. Non ci si stanca mai di rileggerli e i versi s’imprimono nella mente.
C’è un’accurata edizione Garzanti delle Poesie del Foscolo curata da Marcello Turchi (1974, continuamente ristampata).
Pierangela Rossi
ALLA SERA
Forse perché della fatal quiete
Tu sei l’imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquiete
Tenebre e lunghe all’universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
A ZACINTO
Né più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
Del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L’inclito verso di colui che l’acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
IN MORTE DEL FRATELLO GI0OVANNI
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Di gente in gente, mi vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
Il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
La madre or sol, suo dì tardo traendo,
Parlar di me col tuo cenere muto:
Ma io deluse a voi le palme tendo;
E se da lunge i miei tetti saluto,
Sento gli avversi Numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta,
E prego anch’io nel tuo porto quiete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
Allora al petto della madre mesta.