Spolia II – Federico Rossignoli

Federico Rossignoli 2Spolia II di Federico Rossignoli: una lettura.

 

Secondo volume (Federico Rossignoli, Spolia II, Samuele Editore, 2017) di un percorso di analisi e scrittura già manifestatosi nel 2015, una ricognizione del mito greco in una serie di immagini fissate sulla carta a raccontare quanto la cultura classica sia ancora oggi parte integrante del nostro immaginario e della nostra storia culturale di Occidente. Sia nel primo volume sia nel secondo i testi sono superbamente tradotti in inglese da Sandro Pecchiari. Questo secondo volume ha una bella introduzione di Giovanna Frene che tocca alcuni punti essenziali: il tema della identità dei soggetti che si rispecchiano (doppio) e il dilemma che ogni mito racchiude in sé: l’essere una risposta archetipica a una domanda fondativa del vivere umano.

 

Il percorso che vorrei intraprendere nasce da una lettura del testo che vuole mettere tra parentesi la conoscenza dell’autore: dal testo stesso emergono alcune sollecitazioni che mi interrogano. E vorrei iniziare il percorso dalla tessitura complessa del libro, benché scarno nella disposizione.

Il volume è diviso in tre sezioni: Spolia, Ilio sacra, Epinici.

Da subito emergono due livelli di proposizione, due piani di osservazione della materia.

La prima, su cui ritornerò in seguito, riguarda la narrazione vera e propria dei miti, ci propone il passato classico, la cultura di origine dell’Occidente. É il piano metamorfico/mitico, quello del “racconto”. É caratterizzato graficamente dal “tondo”.

La seconda riguarda la contemporaneità di un soggetto nascosto, per lo più, un soggetto occulto presente, colui che guarda, che parla, che si confronta con la materia densa e multiforme del mito, ma sa perfettamente di vivere in “altra” epoca, e tuttavia riconosce nel mito una origine culturale e antropologica. É caratterizzato graficamente dal “corsivo” e attraversa tutte le tre sezioni del volume.

 

Questo soggetto occulto si rivela in quattro momenti specifici, in una specie di epifania si espone: a pag. 21 «se puntavo», pag. 37 «Verrò io da te», pag. 49 «Ne prendo», pag. 61 «Mi aspetto». Tutto il movimento del corsivo è dialogico, c’è una corrispondenza tra un “io” e un “tu” che intrecciano un dialogo d’amore e si affacciano dalla contemporaneità sul terreno numinoso del mito attraverso la natura e le sue immagini: alberi, luce, laguna, ramo abbandonato, cielo, roggia, sottobosco, mare, pagliuzze dorate, pioggia, spazi, tutti luoghi dove accade il mistero, che è il cardine della vita stessa.

Per comprendere la complessità di questa costruzione vorrei osservare con più attenzione la prima poesia in cui si manifesta un soggetto che dice “io”, quella di pag. 21.

 
Ribolliva il cielo
per un fuoco nascosto
e il fulmine appariva
se puntavo il dito.
Gridare era facile
guarda quanto è bello
con la gola secca
accanto alla laguna.

 

L’interlocuzione è rivolta a qualcuno presente con il soggetto che guarda e parla davanti a una immagine portentosa: un accadimento prodigioso, senza un tempo determinato, anzi, nel tempo assoluto del mito, all’origine, nella fondazione del mondo degli uomini. Qui il ruolo del lettore o lettrice apre diverse possibilità di lettura: il “fuoco nascosto” prima della infrazione di Prometeo, il cielo che nasce dal nulla ribollendo tumultuosamente, le “grida” che si rimandano da un luogo all’altro della natura delle divinità silvestri. Il primo pensiero che viene in mente sono le fatiche di Ercole, la decima fatica, in cui Ercole, dopo aver catturato i favolosi buoi di Gerione, scarlatti come il cielo infuocato al tramonto, al ritorno incontra il gigante Caco e lo uccide, e lui restò «con la gola secca» di sangue (Virgilio, Eneide). Ma qualcuno ha anche detto: «se puntavo il dito», rivelando un soggetto cosciente e agente nel testo. Ma chi può puntare il dito e sferrare fulmini, se non lo stesso Zeus?

 

Prendiamo in esame la poesia di pag. 49, per approfondire questa dialettica tra tempo del mito e tempo della contemporaneità.

 
Silenzioso il mattino
pozzo tra le lenzuola.
Ne prendo a piene mani
sulle palme mi resti
bronzo di carne perso
in tragico naufragio
coperta d’anemoni
tradotta in sirena.

 

Ancora un tempo-senza tempo, ma al presente, ancora un tu che fa capolino tra le righe in una situazione d’amore appena colto. Il prodigio qui è una metamorfosi: la donna-sirena, da essere umano a soggetto mitico che racchiude in sé l’umano e l’animale, oltrepassa i confini di natura. Il tema è la passione d’amore, il gioco tra due amanti al risveglio e metafore compiute sono diverse immagini: «pozzo» tra le lenzuola, «ne prendo» con volontà e desiderio di possesso, «perso in naufragio» con lo sbandamento disorientante dell’atto amoroso. La metamorfosi riflette l’orrore primordiale, quel sentimento di terrore e sbigottimento di fronte alla forza dirompente della natura che ha fatto nascere il mito stesso, come tentativo di spiegazione narrativa di fenomeni inspiegabili, che terrorizzano. La natura è colei che crea e che distrugge con la sua violenza inafferrabile per la ragione umana, è il sacro nella sua terribile potenza che si manifesta nel mondo.

 

Torniamo ora al piano della narrazione dei miti.

Nella prima sezione, Spolia, si trovano quattro miti che riguardano divinità femminili: Callisto, Andromeda, Arianna, Atalanta. Tutte sono diventate costellazioni, assunte in cielo dagli dei, dunque divine, e lì permangono a orientare i cammini umani, tra le stelle. Anche in queste narrazioni viene varcato il confine tra umano e animale: Callisto, punita da Artemide, viene mutata in orsa, prima di diventare l’Orsa Maggiore; Andromeda attende la morte da un mostro marino incatenata alla scogliera, prima che Perseo la salvi. Entrambe sono fanciulle “innocenti”, soffrono una pena terribile per colpe non proprie: Callisto è stata ingannata da Zeus apparsole sotto le spoglie di Artemide, Andromeda paga le colpe della madre Cassiopea. Entrambe hanno a che fare con la “voce”, la parola umana che si dispiega nella costruzione di una umanità che emerge dallo stato ferino versus le forze tremende della natura cieca che distrugge.

Le altre due, Arianna e Atalanta, sono le “abbandonate”: Arianna da Teseo, Atalanta dal padre quando era appena nata. Anche queste due giovani hanno strette relazioni con animali: il Minotauro è il fratello di Arianna e la trasformazione in leonessa tocca il destino di Atalanta. Anche in questi miti la parola e il silenzio hanno scandito un percorso di vita.

 

La seconda sezione ha per titolo Ilio sacra, e giustamente Giovanna Frene, nella introduzione, lega questo tema alla poesia stessa. Qui sono in campo tre eroi dell’Iliade: Menelao, Diomede, Aiace, e due donne (Leda e Elena, le bellissime – legate da una profonda consanguineità essendo madre e figlia). “Ilio sacra” riguarda il tema della caducità delle cose del mondo, ricordando il discorso di Ettore ad Andromaca, prima della battaglia fatale con Achille: «Giorno verrà che Ilio sacra perisca».  La sezione si propone di attraversare il campo umano attraverso una serie di opposizioni radicali che segnano le vite e le storie dei tre valorosi guerrieri: violenza furiosa vs civiltà e giustizia (Diomede), forza bruta vs umiliazione e suicidio (Aiace), sofferenza vs valore guerriero e disegno di possesso (Menelao). É su questa materia contraddittoria, lacerata da conflitti e desideri che prende origine la civiltà umana, in questo tempo che distrugge, per cui niente rimane eternamente, se non la parola che canta le gesta degli eroi. Il substrato su cui si fondano gli eventi è l’agone, la battaglia accanita e violenta per la supremazia, la vittoria perseguita a qualunque costo. Ubris, insomma, ciò che mette gli umani in competizione con gli dei stessi, crea squilibrio intollerabile, deve essere ricondotto a una misura.

L’ultima sezione, Epinici, riporta lo spirito guerresco ai luoghi di una tenzone competitiva più mediata e civile, quella dei giochi olimpici. Rifacendosi a queste scritture d’occasione la poesia celebra i vincitori dei giochi e insieme le città che li hanno generati, i miti che li sostengono, le riflessioni morali che ne scaturiscono. E’ un vero e proprio “passaggio alla civiltà”, con i riti di fondazione che hanno dato l’avvio alla storia.

L’ultima poesia della sezione e del libro segna una sorta di chiusura del percorso nel nome di Afrodite Iperborea che riconduce natura e mito e specchiarsi nelle parole della dea: «Parlo con voce d’aquilegia/ e il mio passo incede accanto a ciò che passa», e conclude: «Sono mare anch’io, spuma sono e onde,/ tendo i nervi e bagno le ginocchia,/ sono l’atto di violenza degli abissi,/ la condanna nuda, vittoria senza fine».

Un libro denso, carico di significati e di suggestioni che danno luogo a diverse letture, a possibilità di attraversamenti comparativi che si innestano sulle nostre conoscenze di una materia tanto complessa e radicale da muovere dalla nostra stessa cultura occidentale nella sua origine, sconfinando con quelli che vengono definiti “passaggi di civiltà”, osservando i quali la competenza musicale e di studio della musicologia antica dell’autore hanno avuto una parte non secondaria.

 

Gabriella Musetti