Sempre c’è un ferro che scava – Curzia Ferrari

 
 
“Cos’hai fatto” “Il tunnel carpale, una stupidata.”
Mi guarda trepida l’amica – la mia faccia ridente,
la mia mano bendata… “Non è una malattia,
ti tagliano nel palmo, ma poco,
– dove passa la linea della vita –
                 per aprire un passaggio
come Dio fece con gli ebrei nel Mar Rosso
e Cristo morendo in croce”.
“Fa male?” “Male faceva prima, Lucia,
prima di andare prosciolta
                 grazie a questo varco, un passaporto”.
                 “Davvero?” “Rileggi l’Esodo
tu che sei tanto di chiesa, la questione è sempre la
stessa,
e sempre c’è un ferro che scava
nella successione di tempi diverso
questo, chirurgico – ma non importa –
a governare i flussi e riflussi
del nostro almanacco quotidiano”.
 
 
 
 
 
 
Stamattina si è chiusa a piangere l’aria
nell’armatura verde delle campane. Non scrivete
scemenze nei registri pulciosi dell’Agenzia Pompe Funebri,
tutto è già passato con i piccioni che svolano
da un balcone all’altro nel cielo nuvoloso di settembre,
con l’ahimè frusciato nelle dentiere dei vecchi
pieni di paura scricchiola nei funerali la sutura –
ogni volta un punto si strappa, e resta solo l’aria
che non parla e non scrive, resta l’aria – i suoi fiati,
i suoi inventari sopiti – e l’impeccabile addio
nelle campane tacite degli olmi, lungo la via.
 
 
 
 
 
 
Un piatto di lenticchie con due zucchine al vapore,
che ci racconti, direte, ma che modo
è di far poesia. Perché? È un pezzo che i cavalli
hanno sostituito i destrieri, e l’esergo fa sorridere.
Io vi racconto il pasto di un artista,
ciò che gli spreme inchiostro dalle mani, gli fa girare il torchio,
libricini da sogno creare – fogli otto, pulcini –
in tutto il mondo esaltati, un Charlot di Brianza
che leggermente a farsi fiaba il proprio genio sostiene,
e quanto poco ci voglia
per appagare il corpo.
 
 

Poetessa di lungo corso, dal verso intriso d’amore, perennemente vocata e orientata a una ricerca linguistica sostenuta e acuta, Curzia Ferrari, nell’ampia raccolta di 56 anni di poesia dal titolo Le stagioni della lucertola (Nino Aragno Editore, 2022) curata con particolare intensità e profondità dal critico Vincenzo Guarracino e da cui abbiamo estrapolato questi tre componimenti per la rubrica Microscopio, ci conduce dentro il suo mondo letterario nel quale il tempo assume un significato precipuo. Il tempo del quotidiano, il Chronos certo, ma anche quello spirituale, l’a-temporalità come nelle strofe d’apertura in cui si ricorre a una similitudine tra un disagio fisico, la sindrome del tunnel carpale, e l’epopea, l’immagine biblica maestosa di Dio e degli ebrei nel Mar Rosso, due facce della stessa medaglia. In Ferrari la presenza della divinità, di una essenza ultraterrena è spesso lievito per la scrittura, linfa preziosa. Altrove leggiamo, in una strofa, “il meglio era la Croce”: ecco im-porsi davanti a sé, davanti alla finitudine umana, l’immortale, l’onnipotente Signore che tutto accoglie nella sua bontà riscattandoci dalla morte. Se, dunque, siamo immersi in una costante sequela di flussi e riflussi ben si può arginare la banalità del quotidiano con il ricorso alla Parola che guarisce o quantomeno leviga la ruvidità dell’esistere, lenisce un poco il dolore, supplisce all’assenza e alla vacuità della parola (nell’accezione stavolta “minore”): questa, lo deriviamo dalla seconda poesia selezionata per l’occasione, presta il fianco alla stigmatizzazione della sua inutilità, come nelle scritte dei registri mortuari ove si tenta di esorcizzare l’abbandono eterno con frasi di circostanza. È l’aria, che più volte è citata tra le strofe, ad essere l’impalpabile presenza, una sorta di fil rouge che unisce i vivi e i morti, mentre assistiamo all’ossimoro (campana tacita) che serve a stupire, a disarticolare il senso logico. Sul valore del produrre poesia è incentrato il terzo componimento, un omaggio all’editore Alberto Casiraghi di Pulcinoelefante: il poeta, ma così anche l’editore, non è (più) un superuomo alla moda di D’Annunzio, tutt’altro come in fondo ci hanno insegnato i Crepuscolari. Scrivere versi, lo leggiamo nelle strofe di Ferrari, può nascere e svilupparsi al di là del valore solenne che si dà a tale atto. In questo ogni poeta d’oggi si trova di fronte a una “posterità” rispetto ai grandi del passato che richiama a una sobrietà di giudizi e segnatamente di autoreferenzialità. Entra in quest’ultima poesia il mito, la fiaba che aggetta i territori dell’ordinario appagando, con quel poco che apparentemente richiede, il corpo e lo spirito di chi si è proposto di donare naturaliter stille di bellezza.

Un omaggio in versi, un ribaltamento del senso del poetare che passa dall’antico furoreggiare del destriero al galoppare lento e talvolta compassato del tempo odierno, senza però mai smarrire quella fantasia tipica dell’età dell’infanzia che corrobora ogni nostra azione. È, in ultima analisi, un’assunzione del valore dell’etica e della verità in funzione della conoscenza che Ferrari ha connaturato in sé e da cui promana larga parte della propria attività in versi, mai scevra di plurimi, palpitanti significati. Per lei, come annota ancora Guarracino in un passo del testo critico, siamo di fronte a uno scri/vi/vere che si rinfocola continuamente, si autoalimenta, si fa vieppiù penetrante e sapido.

Federico Migliorati