Antonio Bux, Sativi, Marco Saya, 2017
La poesia a volte è una questione di fiducia. Tu apri il libro e affidi al libro qualcosa. Non so cosa, forse si tratta di quel minimo di aspettativa che dovremmo permettere ogni tanto a noi stessi.
Così ho aperto il libro di Antonio Bux.
La poesia di Antonio è cosmica, ma non nel senso che parla di qualcosa che riguarda il cosmo (che pure potrebbe essere vero) ma soprattutto nel senso che il lettore vorrebbe trovare una direzione, spiegarla, perdersi nella direzione e non ce la fa.
Eppure se osiamo entrare nel libro – come ho deciso di fare io – poi a un certo punto dobbiamo pure chiederci se un’uscita ci sia.
Nella prima sezione l’autore sembra volerci indicare delle risposte per poi dire che “Se una domanda/ ritorna per sempre / la sola risposta”. E in effetti pure questa potrebbe essere una risposta.
Le domande cosmiche di Bux sull’essere/apparire, corpo/memoria si sviluppano in tutta questa prima parte della raccolta.
Un discorso a parte è la riflessione sulla scrittura/eternità della scrittura/memoria del mondo per la quale è avvertibile un sostrato filosofico molto forte: “eternità non è/fermare un volo d’angelo, ma scrivere dell’ala/ che si stacca, e vivere nello scritto quel dolore”.
Così scrivere diventa contatto con la memoria del mondo senza mai dimenticate se stessi. Uno dei perni del libro è il corpo e il titolo dà già delle indicazioni. Sativo significa “coltivabile”, “fertile”. La prima cosa che viene in mente è il corpo: “Ed io, che sono uomo, posso dare /alla vita il dolore che si merita, se io /quel dolore lo porto vivo a me, se /dalla vita cerco amore, io posso dire /che sono stato uomo, e me lo merito”.
In corrispondenza troviamo una poesia che dal punto di vista metrico è eccezionale, a volte epigrammatica (nella parte iniziale) e sempre così moderna quando il verso si allunga senza mai perdersi nella prosa. Nella quarta sezione del libro addirittura l’autore si cimenta nell’esercizio delle coblas capfinidas (anche se probabilmente per la resa del libro, questa è la sezione più debole, pur essendo evidentemente un esercizio di suono).
La chicca è il poemetto finale. Commovente.
Sto parlando della sezione “Cellevive”, posto immaginario con un cimitero immaginario con un guardiano immaginario – Carlo Querques – , che seppellisce morti che vogliono ancora vivere e vivi che non sono mai stati vivi.
Alla fine il punto è il bilico e in questo bilico ci siamo noi, uomini/seme che sempre siamo messi di fronte alla scelta se aprirci o no e sempre la risposta è che siamo campo noi stessi.
Melania Panico
Selezione di poesie:
Se guardo le scale
se le guardo crescere
sembra di essere
in un avvenire
davvero sembrano crescere
ma invece è caduta
avanzata guardando
CHE COSA BUONA IL DESTINO
Come sarebbe bello invecchiare:
e parlare ogni giorno con i morti,
vedere in loro chi sopravvive;
o il futuro già lontano, le scorie
ancora accese del bambino.
Ma come è stato un tumore
troppo svelto, però è stato;
si è fatto giovane qui dentro.
Lo sai, la gioventù non si paga,
ma è un debito: si restituisce.
E ora che gli amici sono morti,
ora che parlano, quanto è vecchio
il tuo modo di pensarli. Certo,
sarebbe bello vivere sereno
anche la morte e il loro tempo,
ma non c’è tempo per chi vive,
non c’è scampo; i giorni sono
rose, e le rose ammaliano
Che cosa buona il destino
se non esiste, se chi lavora
muore ed ha in questo
il solo lavoro;
ma se è cosa buona, e giusta
morire, se senza lavoro
è questo il destino
di chi lavorando si sbrana,
se è solo sbranando lavoro
vero che di amore si vive
tra le pause inventate e le ore
di notte se è assenza la vita,
o se è solo cieco lavoro
d’amore, di notte senza la vita
non vi è più destino, se chi lavora
poi muore, se vive per solo lavoro
lavorerà per amare e morire
e per nessun destino sbranato
né pausa, lavorerà a notte il destino
per debito di vivere
PARLA CELLEVIVE
Vedere sopra l’azzurro del mare
coprirsi l’azzurro della mia solitudine
è come non vedere niente
o è solo volare, o forse è avere ali nere
sull’azzurro che cade
…Sulla spianata che apre il collo
del monte i roseti gentilmente
sono notte, come i silenzi
non dell’uomo, né del pensiero
di essere: ma della vita.
E l’orto era pieno di vita. E di sassi
grezzi, e ardesie molli tra
i vetri e gli insetti
come acufeni, sorvolavano
sui gerani e gli ontani, le tombe
guardate le tombe ora sopra
l’orto sono piene di pozzi
e di vita, e di lavoro! Guardate
a specchio l’orto, come lavora
la vita e il suo segreto! Ed è segreto
come fasciando ad uno a uno i morti
se sgretolano