Intervista di Michele Paoletti a Sandro Pecchiari
Questi testi di Sandro Pecchiari raccontano la fine di un amore e lo smarrimento successivo di chi si trova a rimettere insieme non i cocci ma addirittura gli infiniti granelli di sabbia di un corpo frantumato dal dolore. Quando le parole hanno il peso di uno schiaffo in piena faccia si preferisce salpare da soli senza un ormeggio mentre tutto intorno è fragile e incombe la minaccia di uno strappo, un taglio, una rottura. A cosa ci possiamo aggrappare se l’altro si fa acqueo, se lo sguardo è accecato dal sale e gli oggetti sono muti? Non c’è riparo, scivoliamo per inerzia dentro l’immobilità del dopo aspettando che la ferita bruci un po’ meno, che le cose riprendano colore.
Che ruolo ha l’acqua in questi testi?
Sembra che l’acqua sia onnipervadente in questa raccolta: è acqua che consuma tutto in sabbia, inonda i legami con il conosciuto, ma contemporaneamente gonfia fiumi e li fa sfociare spronando a percorrere rotte nuove. Certo che in una indeterminatezza acquea di questo tipo, è necessario aggrapparsi ad una sosta – l’immobilità del dopo – da dove osservare con attenzione, sapendo che non si possono mantenere eguali i giorni e sapendo che nel momento in cui si spezza il vuoto si verrà travolti da una nuova fase.
Trattenersi un poco è riprendere fiato e riprendere la mira.
L’imperfezione del diluvio (Samuele Editore, 2015) si chiudeva con i versi l’esilio permane/anche per chi resta. L’abbandono è un’altra forma di esilio?
C’è un lieve cenno agli accadimenti storici di Trieste, agli anni dell’esodo, all’emigrazione di parte della cittadinanza verso paesi altri. Io l’ho vissuto da bambino attraverso le scelte della mia famiglia di rimanere mentre parte dei parenti se ne andava. I luoghi spesso sono scelte causate da perdite pregresse, per questo siamo e non siamo, per questo si vorrebbe andare via rimanendo ancorati.
E vivere così è lacerarsi e mantenersi in vita solo perché il coltello della mancanza è infilato profondamente.
Quasi sempre, ricordando Giovanna Frene, la Storia e la storia non sono distinguibili.
Nessun punto da cui ripartire, nessun appiglio. Potrebbero essere le macerie dell’oro frantumato del futuro una base su cui ricostruirsi?
Ma certo! Bicchieri e oro saranno anche infranti, ma non è opportuno mantenerli in cocci inutili. Vanno fatti rivivere: l’oro fonde e la sabbia si cambia in nuovo cristallo. La vita va riciclata per non farla restare pattume. Il nessun punto da cui ripartire e la mancanza di appigli – la via è questa se non ci sono passi – rende tutto quanto un possibile nuovo appiglio e un nuovo punto di partenza.
Questo implica una costante attenzione, disciplina nel percorso e nel linguaggio che viene a sua volta ricreato per descrivere direzioni e possibilità nuove.
cena tempesta
cupa di vino tramontato
sopra il viso
a manrovesci
le risacche dei rinfacci
le frasi ghigliottina
ridotte a imperativi
suoni a strozzo
cestinati
l’improvviso silenzio delle cose
poi
l’oro frantumato del futuro
tra proteste di cristalli
infilarsi nella giacca
ormai fuori dalla porta.
non ha senso volare sulla via
annodami le mani
per cominciare dico
e fronteggiarti
se mi strappi in sabbia
vedrai che non si salpa assieme
siamo accecati nelle collisioni
senza un ormeggio
questo senso di sale nello sguardo
si scolora
nòminati
ora che sparisci
con te il corpo
va in un altro dissetarsi
era nel tuo penetrarmi
in lastroni di respiro
e stringermi e fonderti
fino a solcarci
il tuo farti acqueo
non ha memoria
e sfoggia emozioni senza ossa
e senza ossa penetra
non puoi competere
con lʼimmobilità del dopo
il leggero avvizzirti
nelle frasi