Tutto quello che abbiamo analizzato nei nostri esercizi si è limitato ad esporre i principali strumenti metrici della nostra prosodia, con piglio piuttosto “aperto”, ma questo non esaurisce l’argomento del ritmo o della musicalità.
Gli stessi concetti che sono alla base dei metri classici, canonici, nonché degli andamenti e di ogni loro possibile combinazione, consentono di fare un ulteriore passo.
Per non creare confusione, visto che abbiamo definito il verso libero come la consapevole combinazione di metri canonici e non canonici, e di diversi andamenti, chiameremo “convenzionalmente” questo tipo di verso “liberato” (come già ha fatto qualcuno), in quanto “strutturazione” di un andamento che non tenga necessariamente conto di un predeterminato computo prosodico o metrico, o di forme chiuse.
“Credo che si dovrebbe usare il verso libero solo quando si è obbligati a farlo, vale a dire solo quando la “cosa” si erige da sé un ritmo più bello del ritmo dei metri fissi, o più reale, più partecipe del sentimento della “cosa”, più appropriato, intimo, interpretativo della cadenza del verso accentato regolare; un ritmo che ci rende insoddisfatti dei giambi e degli anapesti tradizionali.”
Ezra Pound, “Sul verso libero”, 1920
“… (usate) infine le parole con un vago adombramento di musica, parole che suggeriscono la musica, parole misurate o parole in un ritmo che ritiene qualche caratteristica precisa dell’impressione emotiva, o del preciso carattere dell’emozione nutriente e materna. Quando questo ritmo, quando la melodia o sequenza vocalica e consonantica sembra veramente portare l’impronta del sentimento che la poesia è intesa a comunicare, questa parte dell’opera è buona.”
Ezra Pound, “L’artista serio”, Parte III, 1913
“Considerare la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema. (…) Mi misi a cercare le forme universali. Per trovare queste cercai dapprima il mio (occidentale e razionale) elemento organizzativo minimo nello scrivere. E questo risultava essere chiaramente la “lettera”, sonora o no, timbrica o no, grafica o formale, simbolica e funzionale insieme (…) intesa come particella ritmica.
Salendo su per questa materia ancora insignificante, incorrevo nella parola intera, intesa come definizione e senso, idea, pozzo della comunicazione.
(…) Notavo strani addensamenti nella ritmicità del mio pensiero, strani arresti, strane coagulazioni e cambi di tempi, strani intervalli di riposo o assenza di azione; nuove fusioni sonore e ideali secondo il cambiare del tempo pratico, degli spazi grafici e degli spazi circondantimi continuamente e materialmente. (…) In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendola la sua idealità. (…) L’unità base del verso non era né la lettera, disgregatrice ed insignificante, né la sillaba, ritmica e mordace ma pur sempre senza idealità, ma piuttosto la parola intera, di qualsiasi genere indifferentemente, le parole essendo considerate tutte di egual valore e peso, tutte da manipolarsi come idee concrete ed astratte. (…) Interrompevo il poema quando era esaurita la forza psichica e la significatività che mi spingeva a scrivere.”
Amelia Rosselli, “Spazi metrici”, 1962
Le scelte possono essere: adottare un tipo di versificazione che adatti una ritmica e una musicalità non eteronormata (cioè ereditata da modelli imposti dalla tradizione) all’esigenza espressiva del verso, il “rendimento preciso dell’impulso” cui Pound attribuisce perfezione poetica; oppure adottare un tipo di poesia che faccia completamente a meno della componente ritmica e musicale, che sposti l’attenzione su temi come espressività (scavo semantico della singola parola) ed evocatività (costruzione di immagini), coerentemente con l’applicazione di una poetica personale.
Questo genere di riflessione porta ad affrontare la questione da una prospettiva differente, fuori dalla normazione fin qui esaminata. Naturalmente, questo strumento può essere un’alternativa, può essere una componente, o può anche essere una scelta che l’autore può consapevolmente evitare.
Ma in ogni caso non è possibile ignorare il fenomeno, e dunque il fatto che il linguaggio poetico possa avere una ritmica nuova basata sulla parola, sul verso, ma anche (e qui mi spingo oltre) sulla respirazione, sulla recitazione, sulla dimensione orale della pronuncia del verso.
In ragione di ciò, come ultimo “esercizio”, vi invito a provare a scrivere, dopo avere assimilato e reso innato lo strumento metrico tradizionale e i diversi andamenti, provando a soffermarvi sul ritmo intrinseco della parola, del verso, oppure della dimensione orale, del respiro e delle sue pause naturali, o infine ignorando completamente il ritmo e la musicalità. Riuscire a comprendere queste possibilità senza sfociare nella prosa richiede una grandissima consapevolezza tecnica, letteraria, espressiva e linguistica.
Eufonia. Abbiamo analizzato molteplici strumenti per essere in grado di controllare la sonorità e la musicalità del verso e delle parole che lo compongono.
Siamo partiti dai fenomeni di assonanza e di consonanza, semplici e più articolati, fenomeni di identità di una o più parti delle parole, fino alle rime, semplici, complesse, al mezzo, interne.
Abbiamo analizzato le tipologie di consonanti e la possibilità di insistere su una singola famiglia (dentali, labiali, palatali), abbiamo approfondito la possibilità di sfruttare la natura etimologica di famiglie di parole per creare giochi di suono e di significato.
Abbiamo infine visto come un gioco di rimandi o di rime al mezzo possa creare un ritmo e delle ricorrenze tramite la frottola o la dissimulazione, e come tutti questi strumenti possano essere negati con forza cercando di creare dissonanze nel verso.
L’eccesso di ciascuno di questi strumenti crea dei versi barocchi, spettacolari ma poco espressivi. È davvero difficile avere una misura che li utilizzi con naturalezza, senza abusare della rima piuttosto che della consonanza, mettendo in primo luogo sempre la comunicatività, la musicalità e l’espressività.
Chiamiamo questa misura “equilibrio eufonico”, e provate a realizzare un componimento che utilizzi con consapevole lucidità e naturalezza un buon numero di questi strumenti in maniera assolutamente bilanciata e funzionale, e non spettacolarizzante, musealizzante o barocca nel senso più deteriore.
Mario Famularo