Primo piano increspato – Emilia Barbato


Primo piano increspato - Emilia Barbato

Primo piano increspato, Emilia Barbato (Stampa 2009, 2022)

Nell’opera di un poeta c’è come un’impronta nascosta che ne richiama subito un’altra per una sorta di attrazione involontaria, qualcosa che emerge nell’esercizio della memoria, nell’associare voci di natura affine. L’ultimo libro di Emilia Barbato, dal titolo Primo piano increspato (edito da Stampa 2009 nel 2022, con la prefazione di Maurizio Cucchi), sembra stringere un legame, ora tacito ora diretto, con la poesia di Cristina Campo. “Troppe cose hanno accolto le tue palpebre / l’attenzione t’ha consumato le ciglia”, è l’incipit di una nota poesia della Campo, da cui la scrittura di Emilia Barbato potrebbe attingere la vocazione ad accogliere quanta più esperienza, più esistenza possibile attraverso lo sguardo, fino a farsene logorare.

È innanzitutto la poesia che dà il titolo al libro, nella sezione di apertura In rosso, a consentire un esplicito accostamento (la funzione conoscitiva della vista, il rimando alla “tunica di fuoco” campiana), ma anche a definire una poetica: “In un primo piano increspato / muove lo sguardo, proibita / tunica e lira del silenzio. / Il resto del corpo calmo, / imperturbabile. // Sa del primo nemico / e della natura divina insieme.” (In un primo piano increspato). Si affacciano qui i temi cari alla Barbato: la centralità dello sguardo nel cogliere i frammenti e l’insieme della realtà, la dedizione quasi claustrale alla cura della parola, la contiguità con il silenzio e la solitudine, una sobrietà che risente dello spirito orientale, una visione che sappia abbracciare l’umano e il trascendente. Il senso dell’opera si condensa nel sintagma ritagliato dal primo verso per il titolo: per quanto si possa tentare un’inquadratura chiara e diretta delle cose, come appunto un primo piano, l’immagine non si mostra limpida, piuttosto risulta increspata, disturbata, come il corrugamento, il moto ondulatorio che impedisce la trasparenza delle acque. Ciò che ci circonda sfugge a una reale conoscenza, si dimostra inaffidabile, perturbato, aleatorio. È il motivo diffuso nei versi della prima sezione, e in varie forme nell’intera raccolta: “[…] Altro / non esiste / che un passo di polvere.” (E l’elleboro – nel bosco), “la luce subisce / un’ulteriore serie di piccole deviazioni / restituendo un’immagine / distorta, sfumata dell’estate.” (Tace. Repentina la neve), “Il disordine sovverte / ogni architettura del paesaggio” (Il disordine sovverte). Tuttavia il tono non è affannoso né inquieto, il lessico è preciso e affilato. Emilia Barbato scrive con la misura di chi è capace di tenere “per ore le dita piegate / come un vomere sulla carta” (Spargi semi, lasci rotolare sassi).

Un dettato più enigmatico appare nella seconda sezione, Voci da un pontile, composta da una sequenza di testi legati l’uno all’altro da una parola-seme: in ogni poesia è presente e variamente declinato il termine pontile, carico di risonanze recondite e di una simbologia tesa a preservare intatta una parte di mistero. In linea con il senso di precarietà che percorre la prima parte del libro, il pontile convoca un’immagine dalla duplice natura, un elemento di raccordo tra l’acqua e la terraferma, stabile eppure esposto alla mutabilità degli eventi. Da un’altra angolatura si può cogliere una vicinanza con la creazione artistica: “Nello spazio / inarticolato della pagina / svetta un pontile (Velo d’acqua), “in bianco e nero posa / nudo il pontile nelle mani dell’artista” (Anima). Poi a prevalere è l’idea di un sostegno, di qualcosa che soccorre e che salva, o ancora l’allusione a una rinascita: “Quando il lago si ritira dalla piena / – e i passi sbagliano stagione – / tracima una speranza. / Rincasa, aurora del remoto / il pontile riaffiora.” (Speranza).

Con la terza e ultima sezione, intitolata L’Hotel, cambia l’ambientazione ma non il soffio meditativo-enigmatico che guida il libro. Anche l’hotel è emblema di precarietà, luogo di transito, riparo temporaneo, e il soggetto si fa osservatore ancora più acuto dinanzi a una vita che scorre quasi incolore tra stanze dai tendaggi polverosi e oggetti dimenticati. Si compongono quadri come scene di teatro fitte di dettagli concreti e figure umane dall’esistenza plausibile eppure surreali, come uscite da un sogno (o da un incubo). Se da un lato si registrano azioni ordinarie, dall’altro domina la matrice onirica, in una dimensione che da fisica diviene metafisica: “All’ingresso nessun usciere apre / la porta di vetro che separa i due mondi.” (Sui muri offesi le betulle), “Il tempo è precario, i clienti, / caduchi come rami / hanno un portamento strisciante.” (Il breve). Fino allo squarcio che denuda il sogno: “poi d’improvviso la favola / si strappa e l’intonaco mostra / intera la sua smorfia.” (Esili tessuti muovono). Le stanze dell’hotel fanno da cassa di risonanza alla solitudine: “Nella sala da pranzo banchetta / solo un ragno che si cala / rapido. // Di quando in quando / saggia l’abisso, / dondola capo e addome, / tra quattro paia di zampe.” (Troppo lunghe). Noi come quel ragno – abitante solitario di uno spazio vuoto –, che segue la propria natura, si libra nell’aria senza sapere perché, senza un punto di appoggio, eppure non teme di affacciarsi sull’abisso.

Daniela Pericone

 
 
da In rosso
 
 
Accordare il tempo e la mano
al cigolio dell’altalena
dondolare piano il viso della piccola,
c’erano così tante cose da desiderare,
il canto pacato di un vecchio, la natura
ineffabile del desiderio in una ciotola Oribe,
l’ombra delle foglie d’acero.
Con centootto rintocchi
di un’antica campana l’uomo del mare
prese tutti i sogni.
 
 
 
 
 
 
Avremmo dovuto restare segreti,
un po’ dimenticati come locande
remote di campagna.
Avremmo dovuto essere fitti muschi
insinuarci nelle clavicole, avanzare piano,
molto piano, con le dita.
 
 
 
 
 
 
Tutte le mattine lisci il letto
lentamente, cerchi le vestigia dei capelli,
l’eco di una risata che scuota
l’aria della stanza, un sorriso
rosso e carnale ma nello specchio
trovi solo un concetto
molto consueto di piastrelle.
 
 
 
 
 
 
da Voci da un pontile
 
 
Velo d’acqua
 
Nello spazio
inarticolato della pagina
svetta un pontile,
la discesa sulla terraferma si dispiega
tra suoni rauchi, incorporei; le parole
si disperdono sulle onde.
Come tutto diventa intimo,
nient’altro che la maniera
semideserta di un pomeriggio.
 
 
 
 
 
 
Famiglia
 
Alcuni pontili non esistono
tuttavia in certi giorni di pioggia
nel sottobosco i tuoni
spaventosissimi spingono a ricredersi.
È allora che si svolge precipitoso,
posa l’obiettivo sulla roccia
rendendo al cielo il suo concetto di molo.
 
 
 
 
 
 
da L’Hotel
 
 
Sui muri offesi le betulle
agitano mani d’ombra e carezze
improvvise ai fregi leonini.
All’ingresso nessun usciere apre
la porta di vetro che separa i due mondi.
In uno strepito di voci e metallo
il ritorno nel presente
quel fiore di stoffa
rosso alle radici.
Sono malcerte le orchidee
alle finestre dell’hotel Acapulco.
 
 
 
 
 
 
Dallo scrittoio la lampada
memore di una fosforescenza
fruga nella polvere un verbo
remoto, ma nomina appena
le orbite di una falena, il peso
irrisorio dei suoi resti.
 
 
 
 
 
 
Guanti, ombrelli, sciarpe
passaporti scaduti, imbracature,
testimonianze calligrafiche, una farmacia
domestica, liberano a ondate gli umori del passato.
Nell’ubbidienza e nella disciplina
gli oggetti rinvenuti aspettano
gemendo da assurdi giacigli
come amanti abbandonati.
 
 
 
 
 
 
Le luci degli ostacoli di volo
balenano sui tetti in un’oscurità
che si rapprende al rosso
boccone. L’hotel, i palazzi,
la pista ciclabile e l’esiguo
brusio delle foglie svaniscono
dove l’asfalto si spiega
argenteo d’aria lunare.
La notte semiacerba
si caccia in una stanza
e picchia e picchia al muro
in uno stato
totale di noncuranza.