POESIA A CONFRONTO: Ulisse


 
 

POESIA A CONFRONTO: Ulisse
DANTE, KAVAFIS, SABA, SEFERIS

 
 

La figura di Ulisse esercita da sempre un’influenza rilevante sulla letteratura; il personaggio della classicità, assurto a esempio o simbolo, è stato quindi riproposto e riletto nel corso dei secoli, in accordo alla sensibilità degli autori che ne hanno trattato e allo spirito del loro tempo. Offriamo qui una selezione minima, con la consapevolezza che non è certamente esaustiva.

Una delle raffigurazioni più influenti di Ulisse è senza dubbio quella dantesca in cui Ulisse, dopo aver fatto ritorno a Itaca, mai sazio di nuove conoscenze, decide di partire per un nuovo viaggio fino ai confini del mondo, per varcare le mitiche colonne d’Ercole. I versi proposti partono con la celebre esortazione di Ulisse ai compagni perché prendano coraggio per la nuova impresa, quella di esplorare il “mondo sanza gente”: non è solo bisogno di avventura, ma è necessità imprescindibile di ogni uomo “seguir virtute e canoscenza”, ossia ampliare lo scibile, conoscere il mondo, dare pieno corso alle proprie capacità e potenzialità. Di fronte a questa esortazione è impossibile trattenersi, pur sapendo il rischio che si corre. La narrazione dantesca prosegue con la descrizione del viaggio, combinando elementi avventurosi e fantastici, fino all’apparizione della “montagna” (il Purgatorio), linea di interdizione, divieto che non è consentito violare, nemmeno a un uomo come Ulisse. La scena del gorgo che inabissa la nave è di straordinaria modernità, anticipando tanta letteratura che sarà, da Melville a Poe, da Conrad a Stevenson.

Nella poesia di Kavafis, pur non apparendo il nome di Ulisse, il continuo riferimento a Itaca rende la sua presenza ugualmente pervasiva. Anche in questa poesia domina il tema del viaggio, nell’ottica però del ricongiungimento / ritorno (il tema del nostos) di ciascuno di noi alla propria Itaca, il punto d’approdo, la piccola isola dove si ritorna “ricco di quanto guadagnasti in via, / senza aspettare che ti dia ricchezze”. Con un messaggio, che oggi può apparire abusato, tanto è entrato nella lingua quotidiana, Kavafis ci ricorda che ciò che conta è il senso del viaggio, non la destinazione: messaggio questo che, quando lo scrisse, era nuovo, originale per lo spirito del suo tempo.

Saba nella sua poesia instaura un’identificazione fra la sua persona e la figura mitologica di Ulisse, grazie ai versi scritti in prima persona. La poesia ci offre la rappresentazione affascinante e incisiva delle isole della costa dalmata, la “terra di nessuno” in cui l’autore sostiene di continuare a vivere, impossibilitato, com’è, a raggiungere la stabilità rassicurante di un porto. La chiusa, dal sapore foscoliano (“non domato spirito”), risolve in modo sentenzioso il parallelismo che è stato istituito fra l’autore e l’eroe omerico.

Nella sua poesia, Seferis rappresenta un incontro con “il fantasma di Odisseo”, che non assume però la forma di un eroe superiore o astratto, ma di “un uomo anche lui che lottò dentro il mondo, con l’anima e col corpo” e proprio per questo capace di essere di insegnamento e di esempio. A ogni impresa di Ulisse corrisponde allora, in parallelo, un’uguale avversità che ciascuno di noi deve saper affrontare nella vita di ogni giorno e che il mito ci ha rappresentato e per la quale ci ha offerto una possibile soluzione, o la capacità semplicemente di porsi quegli interrogativi necessari che sono fondamentali per la nostra formazione. E se è vero che ciascuno di noi è “solo, occulto nel buio della notte, a deriva, come festuca all’aia”, il mito può costituire un sostegno, dare coraggio.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
DANTE
(Da “La Divina Commedia”, Inferno, Canto XXVI)
 
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
 
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
 
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
 
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
 
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
 
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
 
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
 
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
 
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
 
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
 
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
 
 
 
 
 
 
KONSTANTINOS KAVAFIS
(1911)
 
ITACA
 
Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Poseidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto e squisita
è l’emozione che ci tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Poseidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.
 
Fa voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d’estate
che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra) in porti sconosciuti prima.
Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d’ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi.
Recati in molte città dell’Egitto,
a imparare dai sapienti.
 
Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna a quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
 
Itaca t’ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
 
E se la ritrovi povera, Itaca non t’ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.
 
(traduzione di F. M. Pontani, 1961 – Da Konstantinos Kavafis – Poesie, Mondadori, 2000)
 
 
 
 
 
 
UMBERTO SABA
(Da Mediterranee, 1948)
 
ULISSE
 
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
 
 
 
 
 
 
GHIORGOS SEFERIS
(Da Quaderno d’esercizi, 1928-1937)
 
SOPRA UN VERSO STRANIERO
 

A Elli, Natale 1931

Fortunato chi fece il viaggio d’Odisseo.
Fortunato se salda, alla partenza, sentiva la corazza d’un amore distesa nel suo corpo, come le vene dove mugghia il sangue.
 
D’un amore di ritmo indissolubile, invitto come la musica, perenne perché quando nascemmo nacque e quando moriamo, se muore, non lo sappiamo né altri lo sa.
 
Prego Dio che m’aiuti a dire, in un momento di gran felicità, quale sia quest’amore:
siedo talora avvolto dall’esilio, e sento il suo remoto muggito come il suono del mare mescolato al fortunale strano.
 
E si presenta ancora innanzi a me il fantasma d’Odisseo, gli occhi rossi dal salmastro e da una brama
matura: rivedere ancora il fumo che affiora dal calore della casa e il suo cane invecchiato che aspetta sulla porta.
 
Sta, gigantesco, e mormora di tra la barba imbianchita parole della nostra lingua, quale già la parlavano tremila anni fa.
Stende una mano incallita dalle gomene e dalla barra, con la pelle segnata dal tramontano dall’afa e dalle nevi.
 
Sembra che voglia scacciare di mezzo a noi il Ciclope titanico, monocolo, le Sirene che dànno, se le ascolti, l’oblio, Scilla e Cariddi:
tanti intricati mostri, che ci tolgono l’agio di pensare ch’era un uomo anche lui che lottò dentro il mondo, con l’anima e col corpo.
 
È il grande Odisseo: colui che disse di fare il cavallo di legno – e gli Achei presero Troia.
M’immagino che venga a insegnarmi come fare un cavallo di legno anch’io, per conquistare la mia Troia.
 
Parlo basso e tranquillo, senza sforzo: sembra che mi conosca come un padre,
o come uno di quei vecchi marinai che appoggiati alle reti (era burrasca e incolleriva il vento)
mi dicevano, al tempo dell’infanzia, il canto d’Erotòcrito con le lacrime agli occhi
– io tremavo nel sonno udendo il fato avverso d’Aretí discendere i gradini di marmo.
 
Mi dice l’ardua angoscia di sentire le vele della nave gonfie dalla memoria e l’anima farsi timone.
Ed essere solo, occulto nel buio della notte, a deriva, come festuca all’aia.
 
L’amaro di vedere naufragati fra gli elementi i cari, dispersi: ad uno ad uno.
E come stranamente ti fai forte a parlare coi morti, quando i vivi superstiti non bastano.
 
Parla… rivedo ancora le sue mani che sapevano, a prova, se la gòrgone di prora era ben fatta
donarmi il mare senza flutti azzurro nel cuore dell’inverno.
 
(Traduzione di Filippo Maria Pontani, da Giorgos Seferis, Poesie, “Lo Specchio” Mondadori, 1963)