foto di Dino Ignani
POESIA A CONFRONTO – Nell’opera del mondo
SABA, LEVI, LUZI, ANEDDA
Prendiamo in prestito “Nell’opera del mondo”, un’espressione luziana – autore qui antologizzato -, per affrontare oggi un tema di vastissima portata che riguarda il senso del rispetto e della comunione fra gli esseri viventi, il sentirsi parte di un destino comune dal quale non ci si può sottrarre, tutti ugualmente imperfetti e fragili, capaci di rimediare a questa mancanza solo riscoprendo il valore della “pietas”, della compassione (dal latino cum-patior, sentire insieme, condividere uno stesso sentimento, la medesima sorte).
La poesia di Saba prende le mosse dal “colloquio” con una capra, uno di quegli animali semplici, per dirla con Saba, che avvicinano a Dio: il “belato”, così allusivo e simbolico, diventa l’elemento che permette all’uomo di scoprirsi creatura fra le altre, parimenti fragile “perché il dolore è eterno, / ha una voce e non varia”. Questa consapevolezza, ci insegna Saba, impone la riscoperta del valore del “noi”, perché la nostra non è diversa da “ogni altra vita”; comune è la sorte che ci accomuna.
Nella poesia con cui si apre il suo libro testimonianza “Se questo è un uomo”, Levi inchioda ciascuno di noi alla necessità della memoria, all’impegno morale che ci impedisce di chiudere gli occhi di fronte al male universale che è stata la Shoah. È necessario raccontare quanto è accaduto, tramandarlo ai figli senza alcun eufemismo (da cui le immagini crude che il poeta usa) perché nulla debba più ripetersi: questo è il dovere di ciascuno a cui il poeta ci richiama, con la verità della sua vita, con la consapevolezza di chi è stato parte di quella Storia.
Il senso della fragilità di ciascuno di noi bene viene espresso da Luzi nella sua poesia: partendo da un episodio accaduto nella tranquillità di una domenica come tante altre, in cui uno sconosciuto a causa di un infortunio perde la vita sulla strada, nasce la consapevolezza di essere tutti nullità “in questa sfera impazzita / sotto la spada a doppio filo / del giudizio o della remissione”. La sola certezza è quella di riconoscersi uomini, accettare consapevolmente la precarietà e l’imperscrutabilità del nostro destino, perché si può essere soltanto “vita”, fedele a se stessa, semplicemente.
Infine Antonella Anedda, con la lucidità e l’essenzialità lirica che le sono proprie, prendendo a riferimento le nuove guerre che in modo subdolo stanno segnando drammaticamente i nostri tempi, ci invita a riscoprire “un coraggio obliquo / con un gesto / di minima luce”, perché non si permetta che le morti restino anonime, dimenticate. Compito della poesia è dare loro una “lingua”; per quanto sia irrealizzabile la pace autentica occorre saper trovare almeno “il breve sollievo della tregua”: solo così l’uomo può sperare nella salvezza, sua e di tutti. Non l’uomo genericamente detto, ma l’uomo che ciascuno di noi deve saper riscoprire dentro di sé: “noi non salviamo / se non con un coraggio obliquo / con un gesto / di minima luce.”
Fabrizio Bregoli
UMBERTO SABA
(1912 – Da Il Canzoniere – Einaudi, 1961)
LA CAPRA
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
PRIMO LEVI
(Da Se questo è un uomo – De Silva, 1947)
SE QUESTO È UN UOMO
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
MARIO LUZI
(Da Su fondamenti invisibili – Rizzoli, 1971)
VITA FEDELE ALLA VITA
La città di domenica
sul tardi
quando c’è pace
ma una radio geme
tra le sue moli cieche
dalle sue viscere interite
e a chi va nel crepaccio di una via
tagliata netta tra le banche arriva
dolce fino allo spasimo l’umano
appiattato nelle sue chiaviche e nei suoi ammezzati,
tregua, sì, eppure
uno, la fronte sull’asfalto, muore
tra poca gente stranita
che indugia e si fa attorno all’infortunio,
e noi si è qui o per destino o casualmente insieme
tu ed io, mia compagna di poche ore,
in questa sfera impazzita
sotto la spada a doppio filo
del giudizio o della remissione,
vita fedele alla vita
tutto questo che le è cresciuto in seno
dove va, mi chiedo,
discende o sale a sbalzi verso il suo principio…
sebbene non importi, sebbene sia la nostra vita e basta.
ANTONELLA ANEDDA
(Da Notti di pace occidentale – Donzelli, 1999)
Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.