POESIA A CONFRONTO – L’amore, come ai vecchi tempi

Saffo 4

 
 

POESIA A CONFRONTO – L’amore, come ai vecchi tempi
SAFFO, VIRGILIO, PETRARCA, SHAKESPEARE

 

L’amore è il sentimento universale che da sempre anima la produzione poetica. Oggi vogliamo, a costo di essere inattuali o scontati (se preferite), proporre delle poesie d’amore “alla vecchia maniera” (se ci passate questo linguaggio un po’ irriverente), appellandoci quindi a dei grandi classici della letteratura che ci possano essere d’esempio. L’amore, appunto, come ai vecchi tempi…

Partiamo allora dalle origini della letteratura occidentale, con la poetessa Saffo a cui si devono alcuni fra i più celebri versi di tutti i tempi, capaci di resistere al tempo, nella loro immediatezza e semplicità. Nell’ode qui proposta la poetessa interrogandosi su quanto vi sia di più bello “sulla terra bruna” è naturalmente portata a rispondere che è proprio “ciò che si ama”: nulla di materiale o di universalmente ritenuto bello o maestoso lo può sostituire, e chiama a dimostrazione di questa tesi il mito di Elena, travolta dall’amore e costretta da quest’ultimo a lasciare tutto quanto le era più caro. La disarmante semplicità di questa lirica è il suo stesso punto di forza, l’elemento che la rende attuale e indimenticabile.

Sulla capacità dell’amore di sconvolgere l’animo, anche il più saldo, si pronuncia anche Virgilio, qui attraverso Didone, in questo inizio del Canto IV dell’Eneide. Assistiamo al conflitto interiore della regina, che si confida con la sorella Anna, fra la fedeltà al marito defunto Sicheo, imposta dall’osservanza del “Casto Pudore”, e l’attrazione irresistibile per la nobiltà e il valore di Enea, che la spingono a voler amare ancora, sentirsi ardere dall’antica passione (“agnosco veteris vestigia flammae” – verso giustamente rimasto indimenticabile). Conflitto che, come ben noto, si potrà risolvere solo tragicamente, con la morte della regina abbandonata alla irrealizzabilità del suo amore.

All’elogio della donna – della sua virtù che le permette di incarnare una “angelica forma”, “uno spirto celeste”, “un vivo sole” – è dedicato il noto sonetto petrarchesco qui proposto: “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”. La bellezza (“capei d’oro”, “begli occhi”, “’l vago lume”) e la virtù di Laura (presente anche nell’espressione “l’aura” che gioca con il suo nome) sono “l’esca amorosa” capace di far “ardere” “subito” il sentimento del poeta, passione che, anche a distanza di tempo, rimane immutata perché, con l’efficace metafora amorosa dell’arco, “piaga per allentar d’arco non sana”. L’amore può resistere così anche alla morte, eternarsi.

Tema, questo – della resistenza dell’amore alla logica del Tempo (“Love’s not Time’s fool”), tanto da durare fino alla fine dei tempi (“to the edge of doom”) – che viene affrontato anche nel sonetto di Shakespeare che, come ci ha abituato quest’autore, gioca su un prezioso e misurato equilibrio fra pensiero ragionante e immaginazione poetica (si vedano le immagini del faro, della stella guida sul mare in tempesta, della falce). Tutto sembra concludersi, sillogisticamente, con una dimostrazione che si costruisce verso dopo verso fino alla perentoria affermazione finale: “If this be error and upon me proved, / I never writ, nor no man ever loved”, dove è proprio il paradosso che si ostenta a riaffermare la tesi, come in un procedimento per assurdo.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
SAFFO
(630 A.c. circa – 570 a.C. circa)
 
(Frammento n.16 Voigt)
 
Ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον οἰ δὲ πέσδων
οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔμμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν ὄτ –
τω τις ἔραται•
 
πά]γχυ δ᾽εὔμαρες σύνετον πόησαι
πάντι τ[ο]ῦτ᾽, ἀ γὰρ πόλυ περσκόπεισα
κάλλος [ἀνθ]ρώπων Ἐλένα [τὸ]ν ἄνδρα
τόν [πανάρ]ιστον
 
καλλ[ίποι]σ’έβα’ς Τροΐαν πλέοισα,
κωὐδ[ὲ πα]ῖδος οὔδε φίλων το[κ]ήων
πά[μπαν] ἑμνάσθη, ἀλλὰ παράγαγ᾽αὔταν
[πῆλε φίλει]σαν
 
Ὠρος. εὔκ]αμπτον γὰρ [ἀεὶ
τὸ θῆλυ] [αἴ κέ τις] κούφως τ[ὸ πάρον ν]οή[σῃ]ν.
οὐδὲ νῦν, Ἀνακτορίας, ὀνέμναι –
σ’οὐ παρειοῖσας.
 
τᾶ]ς κε βολλοίμαν ἔρατόν τε βᾶμα
κἀμάρυχμα λάμπρον ἴδην προσώπω
ἢ τὰ Λύδων ἄρματα κἀνὄπλοισι
πεσδομ]άχεντας
 
[εὶ μεν ἴδαμεν οὔ δύνατον γένεσθαι
λῷστ᾽ ὀν᾽ ἀνθρώποις, πεδέχην δ᾽ ἄραστηαι,
τῶν πέδειχόν ἐστι βρότοισι λῷον
λελάθεσθαι.]  
 
 
 
ODE A ANATTORIA
 
Quale la cosa più bella
sopra la terra bruna? Uno dice una torma
di cavalieri, uno di fanti, uno di navi.
Io, ciò che si ama.
Farlo capire a tutti è così semplice!
Ecco: la donna più bella del mondo,
Elena, abbandonò
il marito (era un prode) e fuggì
verso Troia, per mare.
E non ebbe pensiero per sua figlia,
per i cari parenti: la travolse
Cipride nella brama.
Anche in me d’Anattoria
ora desta memoria, ch’è lontana.
Di lei l’amato incedere, il barbaglio
del viso chiaro vorrei scorgere,
più che i carri dei Lidi e le armi
grevi dei fanti.
 
(traduzione di Filippo Maria Pontani)
 
 
 
 
 
 
PUBLIO VIRGILIO MARONE
(da Aeneis, 29-19 a.C.)
 
IV.
 
At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis et caeco carpitur igni.
multa viri virtus animo multusque recursat
gentis honos; haerent infixi pectore vultus
verbaque nec placidam membris dat cura quietem.
postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
‘Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent.
quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis.
credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
degeneres animos timor arguit. heu, quibus ille
iactatus fatis. quae bella exhausta canebat.
si mihi non animo fixum immotumque sederet
ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna fatebor enim miseri post fata Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede penatis
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. agnosco veteris vestigia flammae.
sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
pallentis umbras Erebo noctemque profundam,
ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro.’
sic effata sinum lacrimis implevit obortis.
 
[…]  
 
 
 
CANTO IV.
 
Intanto la regina, già da tempo piagata
da profonda passione, nutre nelle sue vene
la ferita e si strugge di una fiamma segreta.
Le ritorna alla mente lo splendido valore
dell’eroe e la sublime gloria della sua stirpe;
porta confitti in cuore le sue parole e il suo volto,
e non trova riposo, quel fuoco non le dà pace.
Il giorno seguente l’Aurora illuminava la terra
con la luce del sole, e aveva cacciato dal cielo
già tutta l’umida ombra, quando Didone
fuori di sé si rivolge alla fedele sorella:
«Anna, sorella mia, che sogni mi spaventano
e mi tengono in ansia! Non ho mai visto un uomo
come l’ospite nostro! Così nobile d’aspetto,
d’animo valoroso e forte nelle armi!
Credo proprio (ed è vero!) che sia di stirpe divina,
poiché la viltà rivela le anime degeneri.
Ahi, da quale destino è stato travagliato,
come ieri diceva! Che guerre ha sostenuto!
Se non avessi deciso irrevocabilmente
di non voler mai più sposarmi con nessuno
dopo che il primo amore se l’è preso la morte
e mi ha lasciata così, delusa, piena d’odio
per le faci nuziali ed il talamo, avrei
forse potuto cedere a quest’unica colpa.
Anna, te lo confesso, dopo la morte del povero
mio marito Sicheo, dopo il delitto fraterno
che ha macchiato di sangue la casa familiare,
questi è il solo che m’abbia colpito i sensi, il solo
che m’abbia folgorato l’anima, così da farla
vacillare: conosco i segni dell’antica fiamma!
Ma la terra profonda s’apra sotto i miei piedi
o il Padre onnipotente mi fulmini nell’ombra,
tra le pallide ombre dell’Inferno e la notte
prima che io possa offenderti, sacro Pudore, e violare
le tue leggi. Colui che per primo mi unì
al suo destino d’uomo s’è preso tutto il mio amore,
ora lo tenga per sé, lo serbi nel sepolcro».
Scoppiò in pianto e le lacrime le corsero giù per il petto.
 
(traduzione di Cesare Vivaldi in Eneide – Editrice Edisco Torino)
 
 
 
 
 
 
FRANCESCO PETRARCA
(Da Rerum Vulgaria Fragmenta (Canzoniere), 1373-74)
 
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;
 
e ’l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?
 
Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro, che pur voce umana.
 
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi: e se non fosse or tale,
piaga per allentar d’arco non sana.
 
 
 
 
 
 
WILLIAM SHAKESPEARE
(Da Sonnets – 1609)
 
CXVI.
 
Let me not to the marriage of true minds
admit impediments. Love is not love
which alters when it alteration finds,
or bends with the remover to remove:
o no! it is an ever-fixed mark
that looks on tempests and is never shaken;
it is the star to every wandering bark,
whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
within his bending sickle’s compass come:
love alters not with his brief hours and weeks,
but bears it out even to the edge of doom.
If this be error and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved.
 
 
 
 
CXVI.
 
Non sarò io ad ammettere ostacoli per l’unione
delle anime sincere. L’amore non è amore
se cambia al cambiare delle circostanze
o si arrende scomparendo con chi scompare:
oh no! È invece un faro sempre acceso
che veglia nella tempesta e non vacilla;
è, per ogni barca che si perde al largo, la stella
dal valore ignoto, anche se ne è nota la distanza.
L’amore non è zimbello del Tempo, anche se labbra e guance
oggi rosee, saranno accerchiate dalla sua falce ricurva:
l’amore non cambia nel giro di brevi giorni o ore,
ma sa resistere fino alla fine dei tempi.
Se io m’inganno e questo sarà dimostrato,
io non ho mai scritto, né nessun uomo ha mai amato.
 
(traduzione di Fabrizio Bregoli)