POESIA A CONFRONTO – La sera
FOSCOLO, PASCOLI, D’ANNUNZIO, SABA
La sera è protagonista di molte poesie della letteratura italiana e internazionale: la scelta qui proposta comprende poesie che sono di fatto dei classici, praticamente presenti in tutte le antologie.
Il celebre sonetto di Foscolo insiste nell’accostamento della sera all’idea della morte (“fatal quiete”), invocata dal poeta come porto di “pace” in cui finalmente i suoi pensieri, le preoccupazioni e ansie quotidiane, possano evadere dal “reo tempo” seguendo le “orme / che vanno al nulla eterno”, il solo che può sedare (“dorme”) lo spirito guerriero del poeta. Il sonetto, misuratamente controllato, è tuttavia attraversato da tensioni sotterranee che trovano espressione nei frequenti enjambement, nelle interruzioni del verso create dalla punteggiatura, nella scelta terminologica.
Tutta attraversata da ricordi famigliari, fino alla regressione infantile è “La mia sera” di Pascoli. La poesia parla di una sera di “tacite stelle”, dopo un giorno “pieno di lampi”, dopo una “aspra bufera” che ha messo a dura prova la natura (“La parte, sì piccola, i nidi /nel giorno non l’ebbero intera.”). Torna uno dei classici temi pascoliani: il “nido”, quel nido che, come per le rondini della poesia, anche per l’autore è stato turbato dai drammi famigliari ben noti. Anche qui la sera si associa al concetto di “pace”, serenità che può essere ritrovata solo nel grembo materno e che si concretizza con le onomatopee finali e quell’insistente invito: “Dormi”, ripetuto come una nenia, “un canto di culla”. Tutto è sospeso, in bilico fra le “voci di tenebra azzurra” e il “nulla”.
Dello stesso anno, ma di tutt’altra impronta stilistica e contenutistica, “La sera fiesolana”, che risente dell’esperienza panica, elemento chiave dell’estate alcionia dannunziana. Con evidenti riferimenti alla forma poetica della lauda, di ascendenza francescana, la sera è celebrata nella sua epifania ricorrendo a preziose assonanze, rime interne e irregolari, sinestesie, allitterazioni (“il fruscio che fan le foglie”), figure iterative (“pel cinto che ti cinge”), altre preziosità. La forma si basa su strofe lunghe e alternanza di versi lunghi e brevi che creano un ritmo unico, sognante, innovativo rispetto alla metrica tradizionale. La poesia è attraversata da una sensualità evidente che culmina nell’ultima strofa in cui “il mistero sacro dei monti”, i “reami d’amor” alludono a “un divieto”, un segreto pulsare del mondo che si può appena sfiorare, intuire per essere vissuto nella sua pienezza.
Fedele al dettame della “poesia onesta”, la poesia di Saba è improntata alla essenzialità. Breve, di struttura paratattica, concisa nella dizione, parca di figure retoriche ed effetti metrici, la poesia pare davvero l’antitesi della precedente. La scena è minima; pochi i dettagli accennati al lettore (“la luna”, alcuni giovani, “povere mete”), molto lasciato al suo intuito (come per “indifferente gioventù”, “sbanda”); infine la chiusa gnomica in cui il poeta, rivolto soprattutto a se stesso, ribadisce come sia la morte la vera padrona della vita: “Ed è il pensiero /della morte che, infine, aiuta vivere”.
Fabrizio Bregoli
UGO FOSCOLO
(Da “ Sonetti – 1803)
ALLA SERA
Forse perché della fatal quïete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
GIOVANNI PASCOLI
(da Canti di Castelvecchio – Zanichelli, 1903)
LA MIA SERA
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Né io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.
GABRIELE D’ANNUNZIO
(Da Alcyone – Treves, 1903)
LA SERA FIESOLANA
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
e colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
UMBERTO SABA
(Da Ultime cose (1935-1943) ne Il Canzoniere – Volume Terzo)
SERA DI FEBBRAIO
Spunta la luna.
Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s’allaccia;
sbanda a povere mète.
Ed è il pensiero
della morte che, infine, aiuta vivere.