foto di Dino Ignani
POESIA A CONFRONTO: Cianfrusaglie
MONTALE, ERBA, CUCCHI
L’uomo contemporaneo, molto più che nel passato, è circondato dagli oggetti, molti di questi di scarso valore, funzionali a un servizio molto circoscritto o marginale, eppure gli oggetti sono diventati invasivi, tanto da intridersi con le vite. Spesso questi oggetti sono poco più che cianfrusaglie.
A un “infilascarpe” è dedicato uno degli Xenia, raccolta in cui Montale passa a un registro radicalmente diverso da quello dei precedenti lavori: molto più domestico, colloquiale. A dominare la scena è la memoria della moglie “Mosca” e così anche un “cornetto di latta arrugginito” diventa tramite per il ricordo, pur nella sua “indecenza”, rottame che la fedele Hedia, “la cameriera”, ha provveduto, per “il prestigio”, ossia il buon nome della coppia, a far sparire nel “canalazzo”. Eppure anche un infilascarpe può essere “rimpianto” se ha saputo dare testimonianza di noi.
E ancora di “cose senza prestigio” parla Luciano Erba, riferendosi a tutti gli “oggetti senza design” fra cui la storica “Trabant” della DDR. Sono proprio questi oggetti a caricarsi di un mistero tutto loro che gli conferisce un ruolo di eccezionalità in “spazi di fisica pura”, esprimendo “una tensione” (o “un’aura” a voler essere – ironicamente – forbiti) fra uomo e mondo che lo circonda, ma sempre nella consapevolezza di essere parte, tutti, di “un cosmo qualunque”, indifferenziato.
Gli oggetti si affastellano nella poesia di Cucchi per progressivo accumulo: “Intendo del pestacarne abbandonato / sopra il frigorifero, o della mela / mezza sbucciata, tagliata, diventata nera; della bottiglia /del vermuth rimasta senza tappo [..]”, “Di fuori c’erano i fiaschi, le bottiglie vuote. Tutti gli ombrelli / appesi alla sbarra di ferro della porta interna.” Sembra di essere sulla scena di un crimine indecifrabile, tutto descritto con un realismo estremo e minimalista al tempo stesso; lo stile è personalissimo, di rottura. Gli oggetti perdono la valenza di simbolo per diventare fissazione, quasi nevrosi: ad accamparsi sono briciole, frantumi, rimasugli attraversati da un’umanità “con la faccia da vampiro”, dal “sorriso macabro”.
Fabrizio Bregoli
EUGENIO MONTALE
(da Xenia, inclusi in Satura – Mondadori, 1972)
L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe,
il cornetto di latta arrugginito ch’era
sempre con noi. Pareva un’indecenza portare
tra i similori e gli stucchi un tale orrore.
Dev’essere al Danieli che ho scordato
di riporlo in valigia o nel sacchetto.
Hedia la cameriera lo buttò certo
nel Canalazzo. E come avrei potuto
scrivere che cercassero quel pezzaccio di latta?
C’era un prestigio (il nostro) da salvare
e Hedia, la fedele, l’aveva fatto.
MAURIZIO CUCCHI
(Da Il disperso – Mondadori, 1976)
LA CASA, GLI ESTRANEI, I PARENTI PROSSIMI
2
Non ci voleva quel bicchiere rotto.
Poco meno di un simbolo. Poco più
di una fissazione. O viceversa. E poi
la ferita, lo zampillo, l’incerottamento. Mi spiace confessarlo,
ma per fortuna che non c’ero.
Diamo un’occhiata alla TOPOGRAFIA DELLA CASA:
– Tutte le cose, a loro modo,
erano in ordine, al posto giusto. Un senso,
capisci, non mancava. Ma quel tale
entrato poco dopo (forse, mi hai detto
dietro la tenda, uno della polizia) cos’ha capito?
Intendo del pestacarne abbandonato
sopra il frigorifero, o della mela
mezza sbucciata, tagliata, diventata nera; della bottiglia
del vermuth rimasta senza tappo, in un angolo sul tavolo,
col bicchiere lì…
Di fuori c’erano i fiaschi, le bottiglie vuote. Tutti gli ombrelli
appesi alla sbarra di ferro della porta interna.
(C’entra qualcosa il vicino
del piano di sotto, che esce sempre dopo le undici di sera
con la faccia da vampiro?)
(Non avevo mai nascosto certe mie debolezze
– Dal dentista
andarci all’ora del tramonto può essere invitante.
E in più, dopo, uscire, fare il giro della casa,
tenerti la bocca, dire al primo che incontri e ti saluta: “Sai
devi scusarmi se parlo male, o mostro un riso macabro. Ma vedi,
mi mancano i denti, proprio qui davanti…”
Così, dopo l’accaduto, la vicina del dentista: “Se la gente caro lei
ci pensasse un po’ più spesso
ci sarebbe meno cattiveria”. E io
rosso di colpa, mezzo scemo, coi capelli
già quasi tagliati a zero
a giustificarmi come segue: “Ma io non c’entro,
io non ho fatto niente… l’infarto… lo sa bene…”
E mi toccavo i bottoni della giacca.)
LUCIANO ERBA
(Da L’ipotesi circense – Garzanti, 1995)
UN COSMO QUALUNQUE
Abitano mondi intermedi
spazi di fisica pura
le cose senza prestigio
gli oggetti senza design
la cravatta per il mio compleanno
le Trabant dei paesi dell’est.
Tèrbano, ma che vorrà dire?
Forse meglio di altri
esprimono una loro tensione
un’aura, si diceva una volta
verso quanto ci circonda.