Nuovo inizio – Gianluca D’Andrea

Gianluca D’Andrea, Nuovo inizio (L’arcolaio, 2023)

Una continua tensione che richiama il termine ultimo di tutte le cose viventi «nell’intimidazione costante della fine»: Nuovo inizio del poeta Gianluca D’Andrea (L’Arcolaio Editore, 2023) si colloca nell’incisività di una prospettiva distopica e, a un tempo, possibilistica: in quella che può essere considerata come l’estinzione di ogni essere che vive e abita il mondo.

L’opera è collocabile sotto il profilo del poemetto, per la continuità e il flusso progressivo della narrazione-esposizione. L’ambiente è quello robotico di una capsula futuristica – ultimo stadio prima della (presunta) fine del mondo – all’interno del quale nasce e si sviluppa una ricerca riflessiva che si dirama in una serie di teorie e supposizioni fenomenologiche e filosofiche, confluendo implicitamente in altrettanti quesiti esistenziali.

La ridefinizione del mondo avviene nella sovrapposizione di immaginazione e realtà – una realtà percepita – la quale coinvolge un soggetto che, in una definizione inusitata per la poesia, potremmo definire il ‘protagonista’, vale a dire un osservatore attraverso cui è possibile, per il lettore, esaminare e seguire l’andamento dell’evoluzione.

In una strana ambiguità dell’io lirico, accade che l’osservatore protagonista, all’interno dell’evoluzione-analisi, cambi la prospettiva dalla prima persona singolare alla terza persona singolare per poi ritornare nuovamente alla prima come in una scissione visiva o in uno sdoppiamento del protagonista stesso. La forte ambiguità del lirismo è data anche dalla forma: nel libro di D’Andrea il verso viene alternato alla stesura prosastica afferrando il più delle volte la postura poetica attraverso le immagini evocative. La prosa, in questo caso, regge la poesia, ne delinea le parti mancanti quasi a completamento, fa da collante tra una poesia e l’altra.

Il disastro mondiale è osservato con distacco, non trapela alcun aspetto emotivo nell’analisi della distruzione: «chiuso nella capsula […] attendo lo spettacolo della scomparsa». La vera apocalisse appare nel crollo e nel fallimento dell’antropocentrismo, negli errori commessi dall’uomo e, dunque, nell’autodistruzione. «La paura di disastri ambientali non avrebbe fermato il ciclo del consumo»: temi di impatto civile e sociale si innestano nel flusso del pensiero dell’osservatore. La libertà, la solitudine, il tempo diventano materia di indagine introspettiva e la diramazione delle riflessioni acquista un senso escatologico. Nella costruzione dei testi si condensano complessità tali da sembrare una sorta di trattato filosofico in chiave fantascientifica.

Se è vero che il mistero dell’uomo passa attraverso la sua esistenza è altrettanto vero che la sua esistenza passa attraverso il mistero, in un continuo mancato disvelamento poiché: «Qualcuno giunse alla conclusione che il mistero/ affondasse le sue radici in se stesso/ in una dispersione infinita per cui non occorreva/ sprecare ulteriori energie».

«Le immagini dell’esperienza onirica nella capsula si sovrapponevano ai ricordi del passato e lui era l’interfaccia di accumulo e ritrasmissione delle informazioni. Il mondo interiore era un mondo d’immagini»: in questo estratto appartenente alla seconda parte del libro (dopo la prima parte de Lo spettacolo della fine) il ‘nuovo inizio’ è un incontro con il ricordo e la memoria che nell’iper-futuro si traduce in supporti digitalizzati in cui i video e le immagini divengono la vera memoria dell’uomo, quasi a simboleggiare una sorta di previsione della deriva dell’uomo – quella a noi già visibile oggi – quasi come una visione profetica.

Nella seconda parte della raccolta emerge l’emotività attraverso «la paura di scomparire», laddove subentra il sogno-ricordo di una vita familiare e domestica: «un’angoscia di scomparsa cancellò i punti di riferimento».

Nuovo inizio è un’opera che non lascia al lettore la possibilità di giungere a una lettura frammentaria in quanto il testo prende forma nella sua organicità, ossia necessita di una lettura (o più riletture) nella sua interezza e nell’ordine prestabilito. Si voglia aggiungere a questo schema di lettura anche una probabile volontà del poeta di voler suggerire una ricerca, o meglio un approfondimento, rispetto a tutto ciò che viene citato e inserito all’interno del poema (dai filosofi agli sportivi, dagli scrittori ai registi e agli attori). Oltre a questo, il tentativo è, verosimilmente, anche quello di indurre una serie di riflessioni e interrogazioni sul mondo contemporaneo attraverso – in alcuni tratti – l’artificio dello straniamento: «il suo intento» come scrive nella postfazione Antonio Devicenti «resta quello interpretativo, cosa ambiziosa e difficilissima, ovviamente, visto che il soggetto dev’essere capace contemporaneamente di pensare il mondo e di pensarsi in esso immerso e quindi determinato».

Serena Mansueto

 
 
 
 
VIII.
 
Mi sveglio sempre nell’immagine
una volta celebre di Vertigo, immerso
nella luce verde e nel riflesso
alienante, spiazzato dall’ombra
prima del contatto, nel desiderio
del feticcio destinato a dissolversi.
La finzione che amoreggia col reale è l’eccedenza,
la avvertivo e dovevo smorzarne la potenza,
contenerla nello spazio minimo
della mia solitudine. Sullo schermo
appaiono oggi, ogni mattino
nell’alba verde, serie tv con famiglie sorridenti
in un quotidiano semiserio.
Affogato dalla luce verde vado
in cerca di altre immagini,
fiuto famiglie esplose in aeroporti,
corpi scarnificati a un soffio
dalla disintegrazione. La mia capsula
non torna indietro, per questo
coordino dalla console il peggio
dell’uomo del benessere, i suoi scarti,
i consensi superficiali, i corpi noiosi della gloria,
gli scheletri e i ventri estroflessi.
La riproduzione spettrale della materia
ripresa ed esposta è il compenso
che riproduce l’ozio e gli incubi
dell’essere di pienezza estinto.
 
 
 
 
XXII.
 
Dopo la catastrofe finale occorre cambiare aria. Una potenza
sbrigativa conduce alla fine. L’uomocosa si avvicina, la trasfor-
mazione avviene. Il gioco ottico pervade la coscienza e illude il
cammino, l’apparato di riflessi è profezia che si autoavvera, ecc.
Dalla luce irregolare l’esterno s’infiltrava nel dispositivo. Come il
ricordo della neve, la luce avrebbe cambiato lo scenario deposi-
tandosi sul mondo. Nella capsula brillava tutto come in una notte
polare del passato e accecava con un’intensità inespugnabile. Di-
stogliere lo sguardo, in questi casi, era un comandamento. Dalla
console era possibile salvare la luce, per cui ogni soggetto poteva
riassestarsi sul passato accaduto fuggendone il presente invasivo.
Il mostro ctonio della nostalgia poteva essere sostituito dalla su-
perficie rassicurante del passatempo. Il ricordo non costituiva un
ostacolo alla percezione e alla riflessione nelle quali il soggetto
doveva essere immerso per restituire, attraverso un vasto flusso
di coscienza, le elaborazioni alla console. Questa interazione con-
tinua forniva energia all’apparato, un mondo avvolgente corro-
borato da suoni e visioni che avrebbero fatto dell’esperienza un
racconto continuo, un reportage sull’esperienza dell’immersione.
 
 
 
 
XXXIII.
 
Avevano raggiunto un anfratto,
il mio cielo coperto
il mio cosmo contratto,
conservati come fossili
sotto strati sovraesposti
d’informazione. Come quando
in un punto della storia
aspettai in silenzio
di trovare l’analogia giusta
con quel cielo in cui vagava
ogni capsula roteando
sul suo centro.
 
Era il giorno in cui l’uomosole vide la dolcezza avvolgerlo nella
presenza realizzata del desiderio. L’immersione in esso sfilacciava
il corpo-truciolo, ogni membrana e quella cosa umana stava nel
cuore della sua dolce, dolce sconfitta che allargava il cielo, il co-
smo-pneuma-osmosi, mentre dallo schermo vibrava una can-
zone dolce.
 
Nell’atmosfera grigio-celeste
il vapore impattava la vista
nel vuoto costellato di rosa
fulminei e albe ponderose
e richiami di arancio e blu.
Colori immensi ridotti
allo scarto di un battito,
all’eco dello spazio…
 
 
 
 
I.
 
La sensazione di raggiungere una casa è fondante in ogni esi-
stenza. Collegabile alla necessità di protezione che caratterizza
l’infanzia, è la divisione distintiva tra dentro e fuori. Sentirsi den-
tro o fuori dalle situazioni, nel mondo o ai suoi margini, dipen-
derebbe dalle capacità di accoglienza o vicinanza di un rifugio,
dalla distanza o vicinanza alla sicurezza. La casa è una dimensione
tattile e anche olfattiva che si radica nella personalità e ne deter-
mina l’adattamento. Non parlo di un’appropriazione del sé attra-
verso la casa, ma di un riassetto germinante del vuoto d’espe-
rienza che definisce l’infanzia.
Tornavo con gli occhi alla strada, affrettavo i passi per sentire da
vicino l’interno. La soglia profumava di fughe, desiderio di acco-
glienza, di calore, di una nuova energia. Ero nella zona intima di
un processo, di una curvatura che avvicinava a un centro come
pura ipotesi.
Mi riconosco in questa ipotesi e attraverso la soglia.