Non c’è nelle parole addio – Giancarlo Majorino


 
 
 
 
c’è una prigione degli attimi
nel vasto cullata
di un tempo senza orizzonte
 
la voce detta o stampata
suona da lontananze
come autoparlante
 
la legge ora è data
dalla scoscesa del trascorrere
e insieme dal suo trascinarsi pian piano
 
 
 
 
 
 
Ascoltare la mente
a sé come un mare
che batte assente
svelarne
l’abitato del niente
 
 
 
 
 
 
misurare, che bella parola
togliamola dal sostare neutrale:
la precisione dell’osservare più
l’immaginazione dentro un fare
 
 
 
 
 
 
Tu non sei trascorsa
siamo vivi e non c’è
nelle parole addio.
 
 
(Giancarlo Majorino, La solitudine e gli altri, Garzanti, 1990)
 
 
 
 

Riconoscersi nel tempo e nel suo trascorrere, accantonare le istanze dell’io per trovare una connessione con gli altri, conciliare la precisione della razionalità, le istanze creative e la realtà dell’agire, tutto ciò con misura, precisione, affinché la solitudine della mente sia occasione di riscoperta del mondo, e non una prigione dove l’io, espanso a causa dei propri impulsi, sia incapace di osservare ed apprezzare la relazione con il mondo e i suoi simili: in questi pochi, brevi, testi di Giancarlo Majorino, tratti da “La solitudine e gli altri”, è possibile rinvenire tutte queste tematiche, in una forma consapevole ed essenziale.
Il primo testo tratta il tema del tempo, una dimensione “senza orizzonte”, in cui è possibile, “nel vasto”, individuare una “prigione degli attimi”, cullata nella “scoscesa del trascorrere” amplissima, che caratterizza l’esistenza umana, la cui unica traccia, nel suo “trascinarsi pian piano” sembra essere “la voce detta o stampata” che “suona da lontananze”; un’immagine che evidenzia la provvisorietà della traccia dell’uomo, pur con tono sereno e accogliente, e del suo tempo, rinchiuso in una minima frazione di quello del mondo.
Il secondo testo, invece, affronta il tema della ragione, dell’intelletto: “la mente” è “come un mare / che batte assente”, elemento insufficiente ad aderire pienamente all’autenticità dell’esistenza, e ascoltarla non fa che “svelarne / l’abitato del niente”.
“Misurare”, parola tipica di un approccio razionale, pur riferibile ad un’azione, non deve sostanziarsi in un “sostare neutrale”, concetto rinchiuso nel proprio approccio intellettivo: è necessario disporre della “precisione dell’osservare” insieme a “l’immaginazione”. Pur unendo il lato razionale a quello creativo, essenziale sarà incanalare quest’attitudine “dentro un fare”, per aderire realmente alla realtà: versi che, nella loro brevità, suonano quasi come un manifesto di poetica e di umanità.
E infine la conferma, nell’ultimo testo, in cui è evidente il riconoscimento pieno dell’altro (il “riconoscersi”, suo tramite): nonostante il precipitare di ogni attimo nella vastità del tempo delle cose, “tu non sei trascorsa”, perché nel momento presente “siamo vivi”; per quanto la ragione, le circostanze contingenti, la provvisorietà delle cose, che può essere comunicata attraverso quella “voce detta o stampata”, ne riconosca la fragilità e il destino di dissolvenza, l’attimo presente, in cui è possibile riconoscere il proprio tempo nell’istante condiviso con l’altro, il proprio esistere attraverso l’essere vivi insieme all’altro, il fine / la fine della propria solitudine nella connessione con l’altro, tutto questo dà senso alla parola e al suo venire alla luce. E in questa sua funzione “non c’è nelle parole addio”, ma cristallizzazione della prospettiva di senso possibile dell’attimo umano, eternato in un frammento di significato condiviso.

Mario Famularo