Michele Paoletti intervista Nicola Manicardi
“Siamo soli, circondati da schermi e da luci”: questo è il grido che si solleva dai testi di Nicola Manicardi. In questi versi taglienti non c’è spazio per la pietà o per l’autocommiserazione. Protetti dai nostri schermi viviamo delle vite surrogate, allontanandoci poco a poco dalla meraviglia che ci circonda. Eppure basterebbe alzare lo sguardo per essere travolti [dall’] azzurro / di un fiore bastardo o da una risata sana / in giro con amici. Troppo impegnati a costruirci un’immagine da sventolare come un biglietto da visita in faccia ai nostri contatti virtuali, moriamo poco a poco intrappolati dentro noi stessi, in fuga continua da un contatto reale con il mondo e con gli altri mentre il nulla non cambia. Le parole di Manicardi non offrono riparo, sono scomode perché profondamente vere e impietose. Non c’è speranza solo un barlume di qualcosa che il poeta non riesce ad afferrare e che sfuma nel rimpianto di una forma [che] / parlava di noi, in un profumo [che] / aveva un’impronta.
Come nascono le tue poesie?
Le mie poesie nascono dal vivere quotidiano, da rapidi e, intensi atteggiamenti di una società sorda e distratta, lontana dall’uomo e dalla natura.
Una poesia morta / che parla dell’io / come un essere assoluto, / perfetto, che ama, produce – vincente. Quali sono invece le caratteristiche di una poesia viva?
La poesia viva la ritrovo nei gesti sani e amorevoli di chi ti sta vicino, nei gesti senza malizia di un bambino. La poesia viva è una testimonianza vera, sincera senza utilizzo di costruzioni linguistiche per accentuare o abbellire il testo ed il pensiero. Viviamo in un epoca che definirei “dell’abbandono“, come posso io non denunciare questo atteggiamento vile? Da questo interrogativo nasce la mia poesia: schietta, cruda, a tratti con velo di umorismo che serve per controbilanciare il tragico presente.
I tuoi testi sono decisamente cupi. C’è posto per la speranza?
La poesia è grido di speranza, di un uomo con la faccia che prova a raccontare il giorno, e, finisce per esserne mangiato.
La mano senza segni
È un rettangolo,
liscio
che ti connette
ad un mondo lontano
perché ai più vicini
puoi stringere la mano.
È una scatola nera
con tanti commenti
ma siamo sicuri
che se parlo, mi senti?
È quel mondo veloce
che ci tiene distratti
a questa memoria
che più non ci appartiene,
perché i primi passi
erano sguardo nel cielo
e,sempre nuvole nuove.
È uno strano discorso
senza stupore
ciò che teniamo in mano,
non è un pollice o un indice
che farà disegnare il mare,
perché l’acqua scivola su lastra di vetro
e il tempo è un dispetto
che nulla trattiene:
neppure l’azzurro
di un fiore bastardo
che cresce fra i sassi
né una risata sana,
in giro con amici
quando la forma
parlava di noi
ed il profumo
aveva un impronta.
Sto scrivendo una poesia morta.
Alternando terzine a quartine
finendo ogni frase con la vocale -e.
In bella calligrafia
incolonnata a dovere
è comunque morta.
Morta
non come la poesia ,
ma come una poesia morta
che parla dell’ io
come un essere assoluto,
perfetto, che ama, produce -vincente.
Morta,
come una donna lasciata
che non vede altro che lui
senza accorgersi di noi.
Morta come il primo Gennaio
morta come chi si alza senza combattere
morta come la linfa a novembre
e i coglioni al Bar Sport.
Adesso che,
mi guardo le dita
e bevo del vino corposo
Adesso che
penso sia tale
ma, non so.
So che fuori fa freddo
buio,
ed io, non ho da fumare.
Continuo a guardarmi le dita
come se, si accendesse qualcosa,
( era solo lo schermo tv)
ed io, non ho da fumare.
Mi uccide lentamente
questa nenia di luci
questo viversi addosso
davanti a improbabili
arredi in vetrina;
perché i marchi segnano
gli schiavi crescono
e il nulla non cambia.