Nella memoria in vita – Anna Cascella Luciani


 

Pubblichiamo un estratto delle poesie di Anna Cascella Luciani (Roma, 20/02/1941 – 31/07/2023), nota poetessa di origini abruzzesi, la cui presenza nel palinsesto poetico nostrano risulta ovattata e le cui radici affondano in special modo nei classici minori – e maggiori – del secolo scorso, irradiando una musicalità prorompente in concerto con una versificazione che talvolta nei toni si avvale di un’espressività epigrammatica.

Dal lieto esordio einaudiano degli anni Ottanta, avvenuto sotto l’ala complice di letterati del calibro di Franco Fortini e Natalia Ginzburg, Anna Cascella ha salutato interessanti collaborazioni con artisti del calibro di Tommaso Cascella ed Ettore Spalletti; con l’artista di Cappelle sul Tavo, Cascella ha dato vita a numerose pubblicazioni, tra cui spiccano A mano (1998), La madia azzurra la spilla brillante (1999) e Colore per colore (2000), Emily Dickinson. Rosso, purpureo, scarlatto (Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2011).

Tutte le poesie composte sino al 2009 da Anna Cascella Luciani, sia edite che inedite, sono state raccolte nel volume Tutte le poesie. 1973-2009 (Gaffi, I Sassi, Roma, 2011), impreziosito introduzione di Massimo Onofri. Del 2020 invece il volume di testimonianze critiche per la sua poesia, con una scelta di testi, La luna e le sue forme (Macabor, 2020) a cura di Marco Corsi e con interventi di Giulio Ferroni, Alessandra Paganardi, Roberto Deidier, Mary Barbara Tolusso, Simone Zafferani, Maria Clelia Cardona, Annalucia Cudazzo, Ivano Mugnaini, Lorenzo Spurio, Lucia Gaddo Zanovello, Giuseppe Arcidiacono, Luigi Fontanella, Fabio Guindani.

Di prossima pubblicazione per LiberAria Editrice una Antologia poetica della Cascella Luciani, disponibile a partire da novembre 2023.

Con questo speciale, la Redazione di Laboratori Poesia intende ricordare una delle voci poetiche italiane più interessanti.

Vernalda Di Tanna

 
 
 
 
Studio dal vero
 
Il piccione sugli smerli
esterni fa da guardia
al tempo memore
dell’alzarsi e abbassarsi
della luce – sensibile
volatilmente al buio
all’ombra – quando
abbandona la guardia
del suo giorno –
degli spalti interni –
della vita interiore
dei cortili – non so
nulla – meno che del mio –
nessun abitante esteta
in quelle stanze – qualche
gabbiotto di metallo –
ruggine – ai quattro
vasi fuori alle finestre –
le piante – anche –
casuali figlie del verde
– mal curate – alcune
piante grasse – echinocactus –
palle spinose che altrove
indicherebbero lo scorrere
interno della linfa –
e un ciclamino più in basso –
esposto al gelo (l’altro
pomeriggio in volo
un passero) – questo
l’interno del cortile
(dei cuori di chi vi abita
non so niente – del mio
potrei invece dire – solo
un terrazzo – non eccelso –
in basso – ha in giugno
un gelsomino – due petunie –
un’ortensia se l’inverno
è andato bene) –
 
 
 
 
 
 
La vita negli orli
I
non ho sorelle, mamma, di cui
scrivere di cappotti
sulla neve – una volta t’ho
detto “mi piacerebbe avere
un fratellino” ma non c’era
padre e tu – giustamente –
rimanesti male ma
non dicesti niente – com’era
tuo uso – tuo costume –
né alla bimbetta o ragazzina
poteva essere chiara allora
la ragione (il chiaro era
solo il mare di celeste –
i giochi sotto casa – l’erba
nel prato vuoto della guerra –
il freddo dei geloni e la tua
distanza – io piccola
in Abruzzo tu nel Lazio
dove insegnavi in una
elementare di San Polo e là –
grande – io abito a Roma –
dove sono nata nell’anno
di guerra 1941 – spesso
ho pensato di arrivare –
andare a vedere quella scuola
elementare – se ci fosse
ancora ma non l’ho mai fatto
e a volte – in primavera –
qui a Roma – lo penso ancora –
qui a Roma dove morì sotto
una carrozza il tuo bisnonno
Domenico – il mio trisnonno –
venuto a Roma a cercare
lavoro dall’Abruzzo – così
raccontava tuo padre Alfredo –
il mio nonno – e diceva
che forse fu sepolto dentro
il Verano – oltre San Lorenzo –
ma non trovò tombe né iscrizione
una volta che dall’Abruzzo
venne a Roma proprio
per ritrovarlo vivo
nella memoria in vita
che si ha dei morti – del chiaro
– dicevo – sapevo solo
l’arruffio delle creste
d’onda dell’estate – a Pescara –
tornati dallo sfollamento –
era il ‘44 – scuola materna
poi – fino alla terza –
quella elementare alla Villa
Montani – requisita
dall’autorità comunale –
la quarta la feci in una scuola
statale in via Leopoldo
Muzi – tu insegnavi
nell’altra – quella del Lazio –
ma – a Pescara – nella casa
del glicine c’erano nonno
nonna e le tue sorelle –
conobbi subito i pini – sotto
casa – e i vasi d’erba
profumata che la signora
De Cinque aveva al terzo
piano – basilico – rosmarino –
lei e suo marito avevano
un negozio in via del Corso –
vendevano pane – salumi –
olio – il vino – questo
nella mia infanzia del dopo-
guerra ma ricordo anche –
forse un momento prima –
quando andavo con zia Enrica
in Corso Vittorio Emanuele –
anche lì un negozio di cui
ricordo il profumo forte
del pesce essiccato –
ed ancora le tessere da fine
della guerra – poi la ripresa
leggera ma migliore –
e al mare – con nonna sotto
l’ombrellone – io a nove
anni e una bambola – credo –
nelle braccia e negli orecchi
il grido della donna
che passava ogni giorno
sulla riva “Bombe calde
bombe calde” e la crema
– se nonna ne comprava una –
si scioglieva in bocca –
lo zucchero sulla pasta
della superficie rimaneva
attaccato sulle dita – poi
– più in là – sulla spiaggia –
quasi la ricchezza – “cocco
cocco – cocco fresco” era
il richiamo esotico rispetto
alla provincia – le noci
di cocco arrivate dai confini
aperti – il frutto del pino
– invece – nel parco sotto
casa che a me bambina pareva
il luogo dei segreti come
il mare alla fine della strada
misterioso per quella sua
estensione – per la vita
dell’acqua – i pesci –
le conchiglie – i pescherecci
– paranze e lampare – il porto
lontano nell’infanzia a piedi-
o forse in bicicletta –
la retta dei ricordi
fra le curve del tempo –
e delle onde)
 
 
 
 
 
 
II
 
e la vita della Topolino
la prima automobile con cui
arrivammo a Roma – zio Ugo
guidava – c’era zia Enrica
che aveva sposato tornato
dalla prigionia – il primo
uomo a stare nella casa
dopo mio nonno – e c’eravamo
– in macchina – mia madre
ed io – tra le montagne
in Abruzzo – le gole
di Popoli – le valli –
correva la Salaria dal bel
nome che a me ancora
ragazzina ricordava il sale
del mare di Pescara
e lungo la via – andando
verso Roma – a sinistra
una casa grande – o era
una chiesa – affondava
nell’acqua – ci fermavamo
a guardarla – l’erba
cullata dalla superficie
del fiume – o cosa era? –
una falda affiorata –
acqua dai monti – la corrente
entrava dalla porta aperta –
abbandonata – molto più tardi
capii che era per me
una preveggenza d’Ofelia
come quel negozio – a Pescara –
che – con le tessere
di guerra e i generi
alimentari più importanti
mi sembrò – negli anni
del ricordo – la dispensa
di Robinson nell’isola – poi
ci fermavamo sempre
a Tagliacozzo a prendere
panini e ancora in viaggio e arrivava Roma – zio Ugo
era nervoso per le troppe
strade e credo
si ritornasse tardi di sera –
il buio delle curve ma
della città ricordo poco –
dove andavamo? cosa vedevamo? –
ricordo di più il Giubileo
del ‘50 – la partenza
presto sull’autobus
di mattina – nonno – nonna
una zia – c’è una fotografia
in Piazza San Pietro – a Roma
e la fontana – una delle due –
ma è da qualche parte – chi sa
dove – ricordo però il mio
sguardo verso quell’acqua
verticale – a Pescara
non c’erano fontane forse
perché bastava la tanta acqua
del mare ad abbellire macerie
e rovine della guerra – ricordo
di Roma dove dormimmo –
un luogo d’accoglienza
per i pellegrini – i letti
divisi da lenzuola tirate
come tende – un odore di spigo
di pulito – forse una casa
di suore – poi ho un ricordo
della Scala Santa dove tutti
andavano in ginocchio – forse
– prima – l’interno enorme
di San Pietro – ma il viaggio
soprattutto – l’andare verso
Roma dove – frequentavo
le medie – tornai con mamma
e la scoprii davvero
la città dov’ero nata – era
stato a Piazza Quadrata –
in una clinica che aveva nome
Sant’ Anna – ma non sono mai
andata a ritrovarla eppure
ci sarò passata davanti
tante volte con la Circolare –
il 30 di un tempo che
c’è ancora e parte da Piazza
Risorgimento – con mamma
dormimmo in una casa
d’una amica del nonno –
nel quartiere Prati – dove
abito oggi – nel 2005 –
allora larghissimo – alberato –
era il ’54 o il ’55 –
il primo viaggio con mia
madre – andammo al Palatino –
lì un uomo si fermò a parlarle
mi sembrò quasi volesse
accompagnarla – poi scendemmo
lei ed io per i Fori – i Mercati
di Traiano – la Colonna –
le chiese quasi gemelle
lì di lato – il Colosseo
invece lo ricordo meglio
anni dopo – mio nonno
era venuto a Roma da Pescara –
il luogo di D’Annunzio
e di Flaiano – entrambi
di casa a Porta Nuova –
la cittadina vecchia – rimaste
con la guerra quattro strade –
ricordo verso sera a Roma
nonno contro il Colosseo
un poco illuminato – l’innalzarsi
degli archi contro il cielo
e un suo sguardo verso
di me – molto tardi capii
il significato per la famiglia
materna del mio venire
a Roma – un osare dove
qualche sorella di mamma
non aveva osato – abbandonare
il dovere dello stare –
del rimanere – del crescere
invecchiare lì nello stesso
luogo (ma io non avevo
un padre a Pescara
da lasciare – ero nata
a Roma – senza padre –
e a Roma volli ritornare
e a distanza di anni – ora
lo penso – quasi fosse –
quello – un rientro nel primo
vagito che non sento)
 
 
 
 
 
 
III
 
Il mio bisnonno si chiamava
Andrea – figlio di Domenico
morto a Roma sotto
una carrozza – per breve tempo
abitò nella casa dei glicini
a Pescara – tornati
dallo sfollamento – ho una
fotografia di prima della guerra –
vicino all’altra casa
saltata con la ritirata
dei tedeschi – era il ’44
il giardinetto pubblico
c’è ancora – dalla strada
fino alla riviera – le tamerici
chiare a primavera – le palme
che poi il Comune prese
a riparare – a chiuderne
i ventagli nell’inverno
in cui il vento soffiava
forte dal mare – portando
a riva conchiglie come doni –
a volte la neve sui mosconi –
lasciati sulla spiaggia
ad aspettare la prossima
stagione – lo ricordo
ammalato in una stanza
ma non la morte – non il funerale –
e so che quando entravo
mi diceva d’aprire un cassetto
del comò e mi regalava
delle arance – mandarini –
sfere preziose di quel
dopoguerra – è quasi
l’unico ricordo che ne ho –
lo ritrovai alla Cappella –
al camposanto alto
che guardava il mare – andavo
sempre là con una zia
nei giorni attorno ai primi
di novembre – la bisnonna
Enrichetta là
in fotografia – non ricordo
di lei niente – so solo quello
che mi raccontava nonna –
la stradina che andava
alla Cappella piena di lumi
di candele – i crisantemi
pesanti e le larghe
dalie – allora era lontana
la morte da me così bambina –
sembrava quasi una festa
la folla di zingare – lunghe
gonne – ori – coralli –
sulle tombe delle loro
famiglie – sulla destra –
nello slargo a sinistra
la fontanella dove andavo
a prendere l’acqua
per i vasi – si metteva
a posto l’altare – la tovaglia –
se la zia s’attardava
un poco facevo un giro
nei viali alberati di cipressi
guardavo le foto – le date
di nascita e di morte –
leggevo le frasi lasciate –
ma non credo capissi cosa
volesse dire – forse allora
mi pareva come un grande
libro – le parole –
le fotografie – e dopo
tanti anni mi resi conto
che era stato simile
in quel tempo ad uno Spoon River
trasportato – le città uguali
dei morti – di quelli
che a qualcuno furono cari –
c’era una tomba accanto
alla Cappella – senza
una scritta – senza alcuna
foto – solo dell’erba
e lasciavo sempre qualche
fiore – chi sa a chi – forse
all’abbandono – un senso
di mancanza – di sgarbo che fosse
così sola con le altre
curate tutt’attorno (la morte
lasciò in pace la famiglia
materna per molti anni –
fino al ’68 – poi
si presentò tutta d’un colpo –
zia Enrica – aveva solo
47 anni – lasciò un figlio –
dopo i diciott’anni – Alfredo –
nato quando avevo otto
anni – zio Ugo il padre –
lo zio dei viaggi a Roma
con la Topolino – raccontava
i dieci anni di prigionia
in India con gli Inglesi –
Alfredo chiamato a lungo
“Alfredino” per distinguerlo
dal nonno – ne portava
il nome – da adulto diventato
paleontologo – quasi – troppo
presto perduta la vita
della madre – volesse
portare a vita vite
scavate)
Vuoi che ti parli
con la mia
di voce
o che a te mi rivolga
da estranea
frequentatrice di altri,
via,
muovi la testa,
Euridice,
l’inferno
già lo conosci
sai bene le statue
di creta fangosa
rapinata sugli argini
del tuo particolare
mi hai detto il vestito
ogni giorno
rispondere all’appello,
appoggiato al mercato
rionale
Plutone aspetta qualcosa,
cambia
la fatalità della fine,
se io non sono
tu non essere ancora
in questo inferno piovoso
il senso se ne va
facilmente,
l’eternità
non contiene risposte,
traccia dei solchi
nell’oscurità,
vuoi che ti parli
con la voce di chi?
La tua storia
somiglia alla mia
in grazia leggerezza
leggiadria si converte
la fatica d’amore
la sofferenza di bella
pazzia dove le bacche
se per siepi si fossero
stanziate gli occhi di lui
le avrebbero invidiate
giacché ora racconta
che a guardarsi in viso
in domestico specchio
si vergogna di quel
fruttificare così
piacevolmente in more
amare.
 
 
 
 
La foto di copertina è di Dino Ignani