Nel sorriso qualche lampioncino trema – Gabriele Galloni


 
I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’Invisibile.
 
 
 
 
 
 
I morti, sotto un comodo cielo
di seta,
consolano l’inquieta
vastità della casa
 
 
 
 
 
 
Notturno
 
Via Ventimiglia. Non c’è più nessuno
In strada, il passo ha una cadenza lieve
Nell’attardarsi, e tenera è la notte
Coi suoi rumori dolci, misteriosi
 
Nel sorriso qualche lampioncino trema
Della sua luce, lungo la stradina
Deserta, luce stanca, moribonda
Come riflessa in una pozza d’acqua
 
da Sulla riva dei corpi e delle anime, Gabriele Galloni (Crocetti, 2023)
 
 
 
 

Il tema della morte in Gabriele Galloni è materia viva, feconda, necessaria, come emerge anche da alcuni versi scelti tratti dall’antologia apparsa per Crocetti Editore nell’anno in corso per la cura dell’ottimo Alessandro Moscè. Morte come lessema che ritorna costantemente, morte come assunto fondamentale al fine di poter discettare dell’umanità ma altresì quale elemento di comunicazione, strumento funzionale ad essa: mai, però, banalizzata o enfaticamente presa a pretesto. Si veda, ad esempio, la prima poesia summenzionata: ad onta della sua giovane età il poeta romano scomparso prematuramente nel 2020 affronta il viatico dell’oltretomba recependo quella corrispondenza d’amorosi sensi tra i vivi e i morti di foscoliana memoria in ciò inferendo quanto già Giovanni Raboni asseriva circa la “comunione” tra i due mondi. Qui, tuttavia, appare più frastagliato quel contatto, quell’ideale filo che lega sponde opposte poiché l’uomo non può né sa raggiungere una comunicazione “perfetta”, priva cioè dei “lapsus, degli inciampi, dell’indicibile”. È come se vi fosse un ostacolo, uno iato che impediscono di racchiudere in noi la Parola che essi, i morti, pronunciano. Al postutto si conviene che omnia vincit Amor anche se ignoriamo l’Invisibile, ciò che sta oltre la nostra conoscenza poiché impenetrabile. Se Ungaretti si professava “tanto attaccato alla vita” Galloni vede nella luce un che fortifica, apotropaico. E sempre sui morti è incentrata la seconda breve composizione qui selezionata, un epigramma lancinante in cui senso e spazio si uniscono, trovano una simbiosi: la loro presenza è motivo di consolazione: così, se prima si parlava di amore, ora “scendiamo” di intensità purtuttavia mantenendo un legame solido, stabile. Ed è questo legame che tranquillizza, che dà un senso a quell’ambiente dei vivi, la casa, vissuta come inquieta poiché fu spesso luogo per lui ossessivo, in cui assenze e presenze, spirito e materia percorrono talvolta le stesse stanze. Siamo di fronte, invece, a un idillio naturale incistato di stupore, con venature che richiamano la “Sera di Sant’Egidio” del mistico sacerdote-poeta Turoldo nella terza poesia: qui ci troviamo in un luogo ben definito. È via Ventimiglia, al Trullo, nella periferia meridionale di Roma, dove sorgono le case popolari e si riuniscono comitive di ragazzi e dove non è raro imbattersi in fantasiosi e colorati murales che raffigurano Frida Kahlo o scritte inneggianti alla libertà. Un territorio ben conosciuto da Galloni che non a caso vi ambienta questi versi abbacinanti nella loro bellezza in cui egli “vede” la solitudine di questa strada, improvvisamente privata del frastuono e del chiacchiericcio. Il silenzio alienante è rotto solo da alcuni “rumori dolci, misteriosi”, forse giovani in amore, ma l’atmosfera è palingenesi di una nuova esperienza sensoriale, una malinconia di fondo che riverbera in quella pozza d’acqua ove tremola la “sera fatua” di questo poeta spentosi troppo presto, ma già consacrato nella sua grandezza.

Federico Migliorati