Foto di Dino Ignani
“Ormai è sazio / di ferite e di cielo. Si chiama/ uomo. Si chiama donna. È qui / nel celeste del pianeta – / dice mamma. Dice cane / o aurora. /La parola amore l’ha inventata / intrappolato nel gelo. /Perso. Lontano. Solo. L’ha scritta/ con ditate di rosso / in un silenzio caduto giù / dalla neve”. Basta una poesia (in copertina del libro) di Mariangela Gualtieri per apprezzare le sue invenzioni di tono, di lettera, di simbolo. Come si dice in quarta di copertina, è un respiro largo quello di questa raccolta, tra ritmo delle stagioni e delle generazioni, ascolto del silenzio, risveglio primaverile. Il che ne fa un’autrice dallo stile semplice con Bruno Schulz citatissimo. Mariangela Gualtieri è nata a Cesena nel 1951. Nel 1983 ha fondato con Cesare Ronconi il teatro Valdoca. Molte le opere. L’ultima nel 2010. Dunque 10 anni per partorire il libro che abbiamo in mano. È uscito nel 2015 (Einaudi). È una delle poetesse migliori.
Pierangela Rossi
Da qualche parte duole
il tempo spina, l goccia avvelenata
che m’inquina, l’antico virus
sempre alle calcagna. Ospite a me
voce che si lagna vergognosa.
E questo piccolo vaso con viole
canta sul tavolino un sì di perfezione –
il suo essere qui, la sua canzone esperta
di rondini. Non è abbastanza oggi
in mia disperazione
il patrocinio altissimo dei fiori.
Una nuvola d’aprile
passa nel cielo
lenta e un po’ sfilacciata
tutta sola nel’aria celeste
tutta bianca e slargata
e passando sfinisce svanisce
diventa dapprima un ciuffetto
poi appena un velame
poi più niente di niente
abdica
obbediente
al seme dell’aria
chiara.
In un fuoco
di petali comincia a parlare
la lingua casta dei fiori.
Lavate i vostri morti. Non perdete
quel giorno del tesoro quando tutto
il caro loro corpo è una mappa
di terra d’oltremare. Pian piano
lavate gli irrigiditi morti,
con le mani toccate quel deserto,
il guscio inabitato e vuoto.
Sentiteli diffusi – spalancati –
Vivi più – di quando furon vivi –
Liberati. È allora che s’apre
l’ostrica dura dei morti.
La poesia
Tanto d’amore viene
e sostiene.
Niente che resti
non amato.
Dentro la lingua
un fagotto di sillabe
si srotola in canto.
È tempo di cadere
dentro covoni di parole
e farne pane per tutti.
Io spero spero che tutte le altre
Stiano bene. Che non sia un generale crepacuore.
Se un vento adesso
porta ombre cattive
parole di turbamento
tu cancella l’arsura
dammi da mangiare
dalla tua voce
un pane di parole intese
dentro le misure del silenzio
oggi che siamo
disabitati.
Ogni granello. Ogni millimetro di foglia.
Ogni estremità di zampa d’ape
tutto ha siffatto marchio d’una cura
che lo sostiene
come fosse ogni specie prediletta
e prescelta, ognuna, nella fattispecie sua
che a guardarla per bene ogni particella
è centro universale, bella
d’una bellezza unica e abbagliante
commovente per quanto ci è vicina
e somigliante.
E chi toglie mistero sia dato
in pasto al suo piccolo credo
e chi toglie mistero resti preso
nella sua rete di faccende
e lasci a noi un ozio salutare
di contemplante.