IL VELIERO CANNIBALE 4 – BRENT, LA BALENA E WILLIAM BLAKE

IL VELIERO CANNIBALE 4 - BRENT E LA BALENA E WILLIAM BLAKE

Andrew Wyeth, Costola di balena

 
 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 

BRENT E LA BALENA E WILLIAM BLAKE

 

Last night, I dream´d that I was dreaming of you
(Tom Waits)

 
 

Il 25 agosto del 1902 una nave militare sbarcava nel porto di Manila. A bordo, il vescovo della neonata Chiesa Episcopale delle Fippine, Charles Henry Brent e il Governatore Generale delle isole, William Howard Taft, futuro presidente degli Stati Uniti d’America, due predicatori insomma, uno con la pretesa di educare anime e l’altro con il compito di gestire i corpi.
Durante la traversata, forse ispirato dall’azzurro Pacifico, da Dio, dal sogno mattutino di un Caronte o semplicemente dalla precarietà della vita (sentimento che in mare affiora con maggiore facilità), Brent annotò sul suo taccuino rivestito di morbida pelle di vitello, un’apprezzabile riflessione, che in seguito avrebbe inserito, senza una logica rigorosa e quindi per vanità, nel suo libro di preghiere:

 
 

I am standing on the sea shore,
a ship sails in the morning breeze and starts for the ocean.
She is an object of beauty and I stand watching her till at last she fades on the horizon
and someone at my side says: “She is gone”.
Gone! Where? Gone from my sight—that is all.
She is just as large in the masts, hull and spars as she was when I saw her,
and just as able to bear her load of living freight to its destination.
The diminished size and total loss of sight is in me, not in her,
and just at the moment when someone at my side says “She is gone”
there are others who are watching her coming,
and other voices take up a glad shout: “There she comes!”
—and that is dying.

 
 

Per uno strano destino però, nel tempo, quella che era una visione e che era stata adattata a preghiera, per un nuovo arbitrio è stata condannata da altri a essere una poesia senza esserlo; attribuirla poi, a un gigante, a William Blake, ne ha perpetuato il degrado.

Ed in quest’ultima veste che tristemente viene spacciata.

 

***

 

Anche io mi sono macchiato di una colpa simile; ma le mie azioni trascendono le mie responsabilità, perché non mi appartengono del tutto e non sono il frutto della mia volontà.

Io sono Peleg e sono nato nel XVI capitolo di Moby Dick; sono il proprietario e l’ex primo ufficiale del Pequod. E non sono perito nel naufragio, ma sono rimasto a Nantucket, e quindi condannato a vivere e a viverci per sempre.

Il destino del personaggio di un libro è singolare. Si nasce con un bagaglio di esperienze di cui si portano i segni, visibili sopratutto a se stessi, ma di cui non può aversi alcuna memoria. Può essere una benedizione trovarsi già con le cicatrici, evitando il dolore e le ferite; ma anche una perdita incolmabile. Sul mio atto di nascita non c’è una data, c’è solo la mia elezione ad artefice e si legge che avevo lavorato sulla struttura originaria della nave e l’avevo “incrostata tutta quanta con una bizzarria tanto di materiali quanto di espedienti… Era addobbata come un barbaro imperatore etiopico, col collo carico di pendagli d’avorio polito. Era fatta di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici. Tutt’intorno le murate, senza pannelli e aperte, erano guarnite, come una ininterrotta mascella, con i lunghi denti aguzzi del capodoglio, inseriti là come caviglie su cui fissare i suoi vecchi nervi e tendini di canapa”.

Dunque sono nato nel capitolo di un libro, mi è stata donata una nave e posso rimodellare il mio passato a piacimento.

Sappiate allora, che una notte ho sognato di sognare una balena, luminosa come fosse fosforescente, terribile come l’apocalisse di Giovanni e dolcissima come una carezza.

Quando mi sono svegliato, ho preso il volume con cui mi ero addormentato, “America: a prophecy” di William Blake, proprio lui, e ho letto l’ultima pagina.

O forse l’ho scritta.

O forse l’ho sognata.

Non ricordo; io posso permettermelo.

Il libro di Blake con la profezia, con la maledizione della balena bianca, è rimasto a bordo, in quella che fu la mia cabina, in un cassetto, nel mio veliero cannibale, in fondo al mare di un libro.

 

THE WHALE
 
Now listen to me, listen the tale,
the waters divided and raising the whale,
a buning bright, a blinding white
will break it up thy darkest night.
 
Taken to see her inscrutable hold,
no treasure thou find, no richness or gold,
so it’s dreadful to face
the prize of your chase.
 
The shining whale exactly knows
of every wake the foamy flows,
of ships and vessels the plotted routs,
of every captain the secret thoughts.
 
Transform her lovers in ghosts and shadows,
a haunted crew good for the gallows,
their danglin bodies and so the harpoons
turn red with sun in the afternoons.
 
And when the drama by now is done
and lives and souls have sadly gone,
the only one who won the fear
re-emerge and watch her disappear.
 
Now listen to me, listen the tale,
the waters divided, and raising the whale,
a buning bright, a blinding white
will break it up thy darkest night.

 

Frescobaldi MacIntyre