Macchine del diluvio – Stefano Massari

Macchine del diluvio, Stefano Massari (MC Edizioni, 2022).

Per cercare di fissare la cifra contenutistica ed espressiva di un’intensa esperienza poetica come quella di Stefano Massari in Macchine del diluvio, silloge apparsa da poco per i tipi della milanese MC edizioni, conviene partire proprio dall’incipit, dal verso iniziale della prima composizione: “Continuano a cantare le iene ogni giorno che viene”. Sta qui anche il segno stilistico di un corpus letterario complesso e multiforme che apre squarci vieppiù ampi di cruda realtà, intrisa di fagocitanti tormenti, di apodittiche verità, di indicibile sofferenza nel trascorrere e trascolorare della quotidianità.

Quattro le parti, di cui una eponima, in cui si produce l’opera: “I primi dodici morti (1969-1996)”, “Figure del diluvio”, “Macchine del diluvio”, “Diario nostro” anticipate da un “antefatto” e con la prefazione di Pasquale di Palmo in risvolto di copertina a garantire una breve, ma incisiva esegesi complessiva. Lo sguardo del poeta è sull’umanità irredenta oltre che dentro la propria interiorità in una spirale concentrica che, a blocchi di sequenze, di stanze di visioni e lancinanti ricordi, spezza il verso facendo spiccare fragorose, nude immagini. Morte e resurrezione, protagoniste della prima sezione, si presentano quasi come una via crucis laica rappresentando il cuore della silloge ma, si badi bene, nulla a che vedere con un luogo cristico: non vi è connessione con la dimensione religiosa e spirituale, anzi. In Massari emerge forte una vena lontana da qualsivoglia confessione, una concezione apotropaica del mondo, una laica Weltanschauung. Il travaglio, la sparizione dal mondo, le confessioni e le tracce dell’infanzia, le secrezioni di corpi e di anime mentre davanti al bambino-uomo si stagliano esiziali personaggi variegati che appaiono e scompaiono nella tagliente, abbacinante atmosfera, puntellano l’architettura dei versi snodandosi con felice esito nello scabro dire.

In “Figure del diluvio” si ergono tremebonde silhouette di donne e uomini violati, metafore di una storia dell’umanità che persevera di nequizie e tregenda, dove sono banditi la pietà e il perdono, tutti vittime come siamo di “destini impostori che avevamo iniziato”. Il verso si fa geometrico, tra cicli, cerchi, curve, in movimenti costanti dove si congiungono cose e persone, elementi immateriali e strumenti. Eppure vi è ugualmente un senso di compassione, nel senso etimologico del vocabolo: una capacità cioè di vivere insieme il patimento dell’altro, dell’umanità agonizzante, dei disperati più poveri della terra come se fosse il proprio.

Una delle parti della silloge, segnatamente la quarta intitolata “Diario nostro”, non a caso dedicata alla moglie compagna Carlotta, è abitata da un linguaggio attento all’essenziale che ricerca un punto di caduta tra le due entità, una composizione di interessi e di sensazioni, una ricerca spasmodica del confronto e dell’unità, un invito a non perdere fiducia a ritrovare il “coraggio di obbedirci di curarci”. Eros e sacro trovano in questo modo un terreno fertile comune.

“Macchine del diluvio”, titolo della terza parte dell’opera, affastella una congerie di figure, azioni, animali, oggetti apparentemente privi di un nesso logico o consequenziale: si procede, rispetto alle altre sezioni, più dinamicamente, per fragmenta, per sintagmi ed epigrammi, per proiezioni improvvise, alternate a fluide costruzioni sintattiche in cui emerge un registro elevato, fortiniano oseremmo dire, privo di punteggiatura per lasciare totalmente libera la parola ed ogni sostrato ad essa connesso. Del poeta fiorentino soccorre “l’urlo altissimo” di una sua poesia (“La gioia avvenire”): anche in Massari tutto risuona, tutto vibra, tutto freme come fossimo su un precipizio a strapiombo sul nulla e “brillano le verità”, quelle insondabili e quelle palesi, mentre morte e maledizioni finiscono imbrogliate e ingannate.

Nel tempo che viviamo, per questo poeta già quotato che sta promuovendo tramite Zona Disforme una proteiforme produzione culturale scandagliando nuove forme e metodi del fare e assorbire poesia, l’assenza di fede in qualsivoglia confessione politica o religiosa è un lusso che non ci si può permettere (annotiamo nell’explicit della prima poesia): non ci è riservata alcuna salvezza, ad onta del Mistero di cui si ammantano i libri sacri. E se non resta che “preparare la resa” è d’uopo lasciarci attrarre da una compulsiva, lucida visione a cui l’autore ci invita, tra turpitudini e speranze, fino alla prossima “misericordiosa bomba” a ricordarci la fragile e spavalda nostra umanità.

Federico Migliorati

 
 
 
 
continuano a cantare le iene               ogni giorno che viene
sulle ossa sorvegliate               dalle madri piene di gloria
intorno alla casa a guardia               che tiene pulita
e prigioniera la storia               nel sangue che unisce
la rabbia caduta               e quella ancora illesa               che regge
la schiena               e lava le tracce dei denti               dopo l’urlo
in piena               e protegge i compleanni dei figli
con le mani di padre               che fumano              e preparano
la resa
 
 
 
 
 
 
la spalancata               violata               in ognun
delle sue numerose vagine che molti di noi
tra i più orfani e infami               genuflessi ancora
tra le sue candide spine               continuiamo a leccare
fino alle piaghe               di ogni suo santissimo cuore
pregando per le generazioni che forse poi forse
chissà se verranno
 
 
 
 
 
 
la torsione in codice               l’ultima paura muscolare
l’ondachiave               che chiude i cieli moltitudini
la cicatrice latitudine dorsale               l’acqua
finalmente calma verticale
 
 
 
 
 
 
come ti sfiori la gola
le dita come un flauto sul vuoto
la spina che ti piega nel grembo
lo stelo del dubbio la lingua
che leghi ai miei denti
 
impareremo questo coraggio
di obbedirci di curarci
di non dividerci mai più