A Marzo 2023 la redattrice Francesca Innocenzi (Il mito di Persefone: la parola che trasforma, QUI) scrisse per la rubrica Mito e Logos come la dea Persefone raffigurasse l’adolescente ancora insicura delle sue possibilità e del suo ruolo nel mondo, più incline a compiacere gli altri che a lavorare per il suo bene.
A Ottobre 2024 ho trovato questa stessa Persefone mentre rimuginava insonne in L’insonnia di Persefone. Monologo per voce recitante di Giuseppe Carlo Airaghi (Convivio Editore, collana di poesia Ormeggi, prefazione di Sergio Daniele Donati). La giovane è stanca della propria vita da pendolare semestrale, di quel
[…] suo millenario andirivieni
tra la buona e la cattiva stagione,
tra il suo regno ipogeo
e i ritorni alla terra della madre
Nei suoi versi vi sono senso di impotenza e indecisione. Inizia a capire che è il momento di uscire dalla sua zona di comfort, mettendosi alla prova con una vita meno sicura, magari più randagia, pur di iniziare a prendere il controllo di sé:
Solo la parola responsabilità
riluce, illumina il cavo della mano.
Chi finge di ignorarla lo fa in cattiva fede.
Sin da questi primi canti si empatizza facilmente con Persefone. Con la stessa facilità la si può immaginare come un’adolescente della generazione Z, con uguale attitudine a prendersi cura della propria salute mentale e delle relazioni. É da qui che nasce in lei il sospetto che la vita di coppia con Ade, nella quale è stata costretta, sia di tipo tossico.
In modo reciproco, anche lei, pure nella sua condizione divina, empatizza con gli esseri umani perché vive come noi: prende i mezzi pubblici, guarda le vetrine, passeggia nei giardini di quartiere. Non ha tratti da regina né da dea, ma vive in una periferia, in un paesaggio di capannoni sfitti, strade provinciali e vie abbandonate all’incuria. Modesti e umanissimi sono anche i suoi piaceri: una tazza di caffé, la compagnia del gatto, riguardare i braccialetti comprati ad Ibiza e le fototessere scattate anni prima.
Sono ricordi nostalgici di momenti felici, ma il poema vuole raccontare l’esatto momento in cui questi souvenir perdono il loro potere evocativo. Accade quando Persefone riconosce, nel secondo atto, di essere ormai altra dalla kore. I bijoux nel portagioie non sostengono più l’immagine della donna che si appresta a diventare. Possiamo scommettere che abbia anche guardato nel suo armadio concludendo con un “non ho nulla da mettermi.”
Nel secondo atto, Nella chiarezza del mattino, la protagonista prende atto non solo del suo desiderio di maturità, ma realizza anche la meschinità dello sposo e del regno in cui è confinata per sei mesi all’anno. Confrontandola con il semestre che trascorre periodicamente agli inferi, riconosce che la vita terrestre – seppur provinciale e modesta – può serbarle una promessa di futuro, e ad essa si aggrappa:
Ogni primavera che ritorna
rinnova promesse e precarie pareti
di gelsomini, profumati e arrendevoli
alle piogge insistenti. Cosa accadrebbe
se per una volta, davvero, prestassi fede
a tutte le sue promesse?
I canti centrali VII e VIII sorprendono per la capacità di restituire per immagini un’estetica suburbana di bellezza impensabile. Questo scenario, per merito di una rinnovata percezione sensoriale da parte della ragazza, apre fantasie icastiche di arcobaleni, di muschio, di robinie in fiore, di ebbrezze etiliche. Come da tradizione omerica, anche nel poema L’insonnia di Persefone c’è spazio per un idillio di poesia descrittiva, quasi bucolica.
Ora che Persefone ha preso coscienza della sua condizione di sudditanza al marito, si auto-assolve per essersi accontentata di una vita a metà. Sostiene di essere caduta nell’auto-inganno in cui cadono gli esseri umani, che si auto-raccontano favole rassicuranti per aggiustare la percezione di ciò che è distorto, incompleto, deleterio. Questa <<impietosa conclusione>>, contenuta nel terzo e ultimo atto – intitolato I passi della confessione – inizia con il plurale <<siamo animali>>, a dimostrare come Persefone si annoveri fra i terrestri. Non solo terrestre, ma anche contemporanea, figlia degli anni Venti del Duemila, che sceglie di uscire da una relazione inquinata per diventare una donna indipendente sulla Terra, potendo contare sulla confidenza di sé e sul supporto di una madre che in tutto il poema non pare mai prescrittiva o giudicante come Ade, bensì un’osservatrice amorevole e paziente.
Nelle lettere che seguono, indirizzate alla madre e al marito, il versificare si svincola dalle terzine che hanno caratterizzato i primi due atti grazie ad un’accresciuta fiducia nelle proprie parole, alle volte anche molto dure:
Il cazzo di Ade è privo di gentilezze
ma non è gentilezza che cerco
nel nostro letto regale.
La primavera mi entra nel cuore,
l’inverno nella vagina.
Nel medesimo morso
inghiotto il verme e la mela.
La nostra dimostra di essere in procinto di maturare uno stile tutto suo, ed è così che la troviamo nella copertina del libro: seppur nella bellezza senza tempo di una statua classica, ha deciso di portare i capelli sciolti, indossa le cuffie e gli occhiali da sole.
Non è la prima volta che Giuseppe Carlo Airaghi propone un monologo/poema in cui un essere ultraterreno decide di vivere come un umano. Nel suo Monologo dell’angelo caduto, (Fara Editore, 2022, prefazione di Alessandro Ramberti) l’angelo Damiel decide di perdere l’immortalità e l’incorporeità per diventare persona tra le persone, godere di qualche vizio, superare i momenti bui e lasciare un segno di sé.
Se nel testo del 2022 Giuseppe Carlo Airaghi ci ha concesso di conoscere la vita dell’ex angelo sino alla vecchiaia, mi aspetto che l’autore voglia fare uno sforzo di immaginazione per scrivere una seconda parte a L’insonnia di Persefone, per portare la protagonista a considerazioni più adulte sulla sua nuova vita nel mondo, in cui si dovrà misurare con l’ingombro del potere maschile e con la menopausa.
Elisa Malvoni
Atto primo
IV
Porto sulle spalle il peso intero
della notte, degli scrosci sprecati
delle fontane, del mio sonno in frantumi.
Attuo una dolorosa resa al dolore,
all’insidia che mi spinge a inciampare
negli abbagli della luce frontale.
Ori e febbri. Tra questi estremi
già si annuncia il mio spietato ottobre
che non sarà vento, tra i rami.
Niente mi interessa davvero oltre
la mia dura condanna, il patto col dolore,
la discesa alla mia casa d’inverno.
Perlomeno qui l’insonnia
è benedetta dalle stelle. Laggiù
è tutto un guardarsi all’indietro
mentre qui i fiori sul davanzale,
che ancora non oso sfiorare,
hanno occhi soltanto per i giorni a venire.
Atto secondo
III
Nel portagioie di cui non mi curo
i gioielli di famiglia, gli ori,
gli argenti dei cinesi stanno
mischiati alle forcine, alle roselline
di carta velina, ai braccialetti in cuoio comprati ad Ibiza, mai indossati.
Le fototessere della stazione
sgualcite, sorridono sghembe
ancora e per sempre, eppure
non sanno più nulla di me,
se mai hanno saputo,
né dei miei attuali sorrisi,
del mio imposto regno ipogeo,
dei miei ciclici arrivederci.
Atto terzo
Prima lettera a Ade
Sopra il tavolo della discussione
insieme ai chicchi di melograno
non caddero soltanto le parole
dette, ma stagioni di incomprensioni,
le tue pretese e la mia inadeguatezza,
lo sviare degli sguardi, la crepa
che da parte a parte ci spartiva,
la canzone d’amore, in sottofondo,
diventata d’un tratto
un rumore molesto.
Tutto il non detto sbraitava, si infilzava
tra le righe, cancellava con segni neri
intere frasi, stracciava i fogli delle confessioni
redatte di fretta in brutta copia.
Solo il reciproco perdono
poteva sgombrare la tavola
da tutte le macerie franate
ma il perdono è affare per gli angeli
o per gli esseri che si amano
tra loro in qualsiasi stagione,
persino durante le primavere
dei nostri arrivederci.