Dopo Passi sui sassi, del 2017,Ostinato, del 2019, eGutta Cavat, del 2021, Cinzia Della Ciana è giunta alla sua quarta raccolta di poesie: Cartoliriche (Helicon, 2025, con una nota di Federico Migliorati). Non siamo di fronte a una serie di successive aggiunte casuali e contingenti, ma a un percorso consapevole, attraverso il quale la poetessa ha affinato da un lato la sua tecnica, dall’altro il suo porsi, personalissimo ormai, di fronte a un mezzo di comunicazione artistica, la poesia, che nel suo caso si è giovato non solo di una progressiva e autonoma maturazione, ma anche della continua convivenza con altre forme: il romanzo, il racconto, il teatro. Vista nel suo complesso, la produzione letteraria di Della Ciana è l’affermazione di un principio, forse non universale ma del tutto valido, secondo cui pensare e scrivere in prosa aiuta il pensare e lo scrivere in poesia, e viceversa. ConCartoliriche, infatti, la poetessa è riuscita ad isolare e mettere in piena evidenza due dimensioni che, da sempre, caratterizzano il suo fare poetico e non solo poetico: da un lato il suo continuo essere attratta dalle forme del mondo, il suo irrinunciabile stupirsi della bellezza, sia essa naturale o artefatta; dall’altro il potente richiamo dell’interiorità, il confrontarsi non con le cose ma con gli altri nello sguardo assolutamente soggettivo dell’anima. Sono forse due dimensioni fra le più presenti, da sempre, in ogni opera poetica, ma certo sono la cifra più riconoscibile dello stile di Della Ciana, non solo nei suoi versi ma anche nei suoi personaggi, o nei suoi “attori” in scena. Non bisogna mai parlare di un vertice raggiunto, sicuramente altri lavori seguiranno, ma è comunque evidente il frutto di una lunga sedimentazione.
Da qui, dalla sottolineatura per separazione delle due dimensioni, l’idea estremamente accattivante di dividere il libro in due parti, equivalenti e in un certo senso speculari: nella prima 66 immagini, come fossero le vecchie care cartoline da spedire da un luogo lontano; nella seconda 66 riflessioni, o pensieri, o considerazioni su piccoli e grandi temi esistenziali, come fossero il messaggio che un tempo si scriveva sul retro della cartolina:Cartoliriche, appunto, scorrendo le quali il lettore è perfettamente libero di associare immagini a pensieri, sicuro in ogni momento che niente andrà perduto. Un gioco? Certo, nel senso di un anticoludus, e precisamente quello di giocare con la musicalità e l’ambivalenza delle parole che i più grandi poeti moderni non hanno mai perso di vista.
Nella prima parte, dunque, i luoghi, e si va da quelli da sempre più familiari alla poetessa, come la montagna pistoiese, al fascino di città piccole e grandi, Venezia, Matera, Parma, al mare della Liguria, fino all’ultima, quasi timida concessione all’estraneità di un’altra terra, la meravigliosa Provenza. Ogni volta, certo, non una fotografia, non una descrizione – non è compito della poesia – ma una serie di sensazioni, di slittamenti dell’animo quasi sempre dovuti non all’intera estensione di un paesaggio – fa eccezione, giustamente, Matera – ma a singoli particolari che sfumano nell’insieme. In questo senso perfette le illustrazioni della copertina, fotografie elaborate e rese oniriche da Alessandra Vinotto, non a caso anche lei poetessa. È indubbio che queste cartoline Della Ciana le ha scritte prima di tutto a se stessa, come è giusto che sia, idealmente segnando su un diario di viaggio, anzi in una serie di diari di viaggio, ciò che non doveva assolutamente andare perduto: non la memoria contingente di un qualsivoglia accadere, resa più assaporabile dal piccolo esotismo dell’estraneità, ma il ricordo, ciò che attiene al cor-cordis, di un pensiero, o di un’emozione, che solo lì potevano sorgere, davanti al Sacro Speco di San Benedetto o alla Lanterna di Genova, allontanandosi dall’isola del Giglio o avvicinandosi a una Robbiana. Difficile, davvero, chiedere a un lettore quale di queste cartoline avrebbe voluto ricevere, al di là del troppo facile gioco del ri-conoscere luoghi forse già noti: sono certo che da un lato, per il nostro lettore, ogni luogo presente anche alla sua memoria diverrà un luogo completamente da ripensare; dall’altro, ogni luogo mai visto diventerà immediatamente suo, come facesse parte del suo stesso bagaglio.
Nella seconda parte, dunque, ciò che andrà considerato come scritto dietro a ciascuna di queste cartoline: considerazioni sulla vita, sul tempo, sulla trascendenza, perfino sul linguaggio; soprattutto considerazioni sugli altri, sul vivere in mezzo agli altri, su come ci vedono – forse – e su come li vediamo; ma anche su oggetti, fiori, spiagge e moli completamente decontestualizzati, e quindi sottratti a quel meccanismo “idillico”, come Leopardi insegnava, che li rendevano oggettivi e localizzati. Trasformati dunque in simboli, in correlativi oggettivi di uno stato d’animo. In questa parte, dunque, i titoli delle sezioni non delineano, come nella prima, le tappe di un interminabile viaggio, ma tre stazioni, che forse sono anch’esse, però, un percorso: “Quando la vita ti stringe” è un lungo, altalenante ma sempre indomito, necessario arrendersi a una ineluttabile fatalità sempre però osteggiata da un intenso amore per la vita. “Nel disincanto” è forse il risultato della precedente lotta: qui il dettato si fa quasi sempre ironicamente filosofico, come in un grande del 900, Caproni, e si va alla ricerca di una libertà altrettanto ineluttabile: nella follia, nel paradosso, ma anche nella semplice immaginazione, dote, purtroppo, sempre più rara. Infine “Nell’incanto di neve, di bosco e di mare” torna evidentemente ad elementi naturali ma, appunto, deoggettivati, introvabili su una carta geografica, come la luna del “Tramonto della luna” nel canto postumo e soprattutto post-idillico di Leopardi. Verrebbe da chiedere all’autrice, avendone occasione, se la struttura del libro non nasconda anche un percorso lineare da luoghi reali ri-vissuti nel ri-cordo a luoghi dell’anima che si è sempre predisposti alla possibilità di ri-vivere.
Non si può non concludere con un accenno, brevissimo, allo stile e alla tecnica: ciò di cui parliamo è poesia, con tutto ciò che il termine, nonostante tutto, continua a connotare dal lato ritmico e musicale, e Della Ciana ne è perfettamente consapevole. Forte del suo stesso percorso, quello di cui si parlava all’inizio, fatto anche di continue sperimentazioni sull’armonia dei suoni e sulla metrica, si può dire nella maniera più concisa possibile che riconosciamo in quest’ultima raccolta una metrica libera ormai giunta alla piena padronanza di sé, sulla scorta di un modernismo che ha dominato tutta la poesia del 900, dal primo Montale in poi. Esemplari in questo senso le serie di endecasillabi che, soprattutto nella seconda parte, improvvisamente variano, si interrompono, impongono alla cadenza della lettura brusche e notevolissime svolte o fermate. Nella misura abbastanza omogenea dei 15-20 versi – la misura giusta per il messaggio di una cartolina – Cinzia Della Ciana ci ripropone continuamente, come ogni poeta degno di questo nome, una forma che accompagna e sottolinea le espansioni e le contrazioni del sentire.
Andrea Matucci
Tutto vuoto, Matera
Non è facile abbracciare un alveare
un teatro di pietra forata
la preistoria e il Vangelo
l’ammasso vacuo che riempie il cielo
il tufo che cangia il grigio in oro.
Manca la gente col mulo e il maiale
la sento presente nel duro del pane
in questi scalini dove il pensiero
sale di dritto a pregare allo sciame.
La vita è una grande madre
che piange il figlio
che nasce e che muore.
In alto eppure deve esserci
il Padre.
Propositi per il nuovo anno
Non chiudere porte
non serve
Non alzare muri
tanto non ti chiudi
ermetico
Tutto è permeabile
si insinua
trova il modo
entra dentro
e si ribella
all’arrogante isolamento.
Se vivi di ruoli
dividi i soli
ìmperi e muori
arido.
Costruisci tetti
tessi mantelli
per l’oscuro ripari
lascia aperta la porta
che i vizi diventino
sani e i santi umani.
Contaminarsi vaccina.
Giglio, un’isola
E mentre salpavo
lasciavo quel corpo
sagoma al crepuscolo
lucenti crespe il mare
ancor per poco caldo
accecata dalla distanza
sempre più diafana
gabbiani confondevano le nubi.
Dolce morire, quando sarà
lo voglio ricordare così
questo fondale nell’istante.
Le isole sono corpi
distesi morti al sole
il mare un cimitero
nessuno è salito in cielo.
Son tutti a galleggiare,
da qualche parte,
pescati da un buco nero