L'equilibrio della foglia in caduta – Silvia Secco

secco

Spesso quando leggo libri di poesia mi trovo a confrontarmi, giocoforza e mio malgrado, con delle arditissime pre e/o postfazioni capaci di termini che, devo ammetterlo, a volte devo andare a cercare nel mio vecchio buon caro vocabolario. Scritti che hanno la capacità di trovare metafore convincenti e fil rouge tra nuvole e fiori, tramonti e stelle. Il tutto, lo devo dire onestamente, con un tono che pare più simile a una giustificazione che a un’introduzione o nota. E non di rado leggendo poi i versi mi capita di non riuscire a rintracciare quegli slanci così bene raccomandati. Credo sia anche per questo che, in tale spazio, più volte ho avvertito che mi occupo solo di impressioni da lettore.

Questa piccola avvertenza non certo per criticare già negativamente il bell’edito di Silvia Secco, L’equilibrio della foglia caduta (Cfr Edizioni 2014), ma anzi per elogiarne ancor di più i suoi punti di forza. Se infatti si legge la postfazione di Enio Sartori si trova: per dirci che la parola, innanzitutto la sua, vibra nei varchi, agisce nelle crepe tra pensiero e linguaggio, tra lingua e canto, tra canto e respiro, per farsi presente innanzitutto a se stessa e al proprio accadere, come un “battito d’ali”. Poesia che inanella una trama di parole tese verso un’incessante tessitura e un appassionato rammento di quegli stessi varchi e crepe che non chiedono di essere rimosse ma piuttosto consapevolmente agite. Parole che personalmente, di fronte alla poesia di Silvia Secco, mi convincono infinitamente meno di quelle di Francesco Sassetto in prefazione: Si trovano in questo libro alcune delle più emozionanti, intense poesie d’amore e sull’amore che chi scrive abbia mai letto (e non credo di esagerare). Una decina di liriche – splendida, in particolare, Il solco – che disegnano un vero e proprio modus amandi che ha, a mio modo di vedere, la robustezza e l’incisività di una lezione.

Ma l’Equilibrio della foglia in caduta di Silvia Secco va detto è un’opera prima, e già avere al suo interno una decina di poesie emozionanti va considerato come un successo importante (per fare un paragone personale, quando ho pubblicato il mio Canzoniere inutile con prefazione di Elio Pecora, Alessandro Agostinelli – il poeta che poi scrisse quell’articolo sull’Espresso Penisola dei Poeti, qui, – indicò pubblicamente nel mio libro appena sei poesie potenti). Un successo che si inserisce in un’intenzione di scrittura molto particolare. È infatti fuor di dubbio che il libro nasce come un laboratorio poetico dove confluiscono cose diverse, poi strutturate in sezioni (Cadute, Equilibrismi, Foglie). Si trovano testi in dialetto quanto testi d’amore, testi diaristici, riflessioni un po’ pindariche (Il pensiero si intrica / più veloce del corsivo / nelle trame della lingua). Il dialetto in particolare convince per la sua efficacia comunicativa (Altalena, amore mio. / Me toca starte drio. Parfin piegarme: / tuto un peso sui zanoci e urtarte su. / Dai oci, sti fondi che ghemo… E dove mai / rivaremo? E se, da qualche parte… Altalena, amore mio. / Devo accudirti. Persino piegarmi: / tutto un peso sulle ginocchia e spingerti su. / Dagli occhi,. Questi profondi che abbiamo. E dove mai / arriveremo? E se, da qualche parte…) che non perde la sua migliore occasione anche in certi testi in italiano (un esempio fra tutti, stupendo, l’incipit di Due ragazze a Siena: Le piazze hanno fontane sui gradini / dove stare. E sedersi fianc’affianco, / affini. A dondolarci, spettinarsi / di capelli e di immaginazioni / biondobrune, di due ragazze a Siena / (e dintorni), un giorno di dieci anni fa.).

Ma è nei testi più intimi che Silvia Secco dimostra il seme della sua capacità poetica, che credo di una certa levatura. È quando Silvia abbandona l’uso della parola poetica per una sua sensazione che arriva a toccare la sua massima espressività. Perchè versi come La tua pelle ha l’odore / dell’ombra. / La speranza non ha storia. / Come la pioggia al suolo non possono che far sentire il ritmo sincopato di quella pelle, di quelle mani che la toccano, o non la toccano, che non hanno speranza, come la pioggia al suolo. E questa sì, questa è bella poesia.

 
 
 
 

Vuotonirico

Esco. Nella notte
mi scopro. Mi spoglio.
E lei è mia sorella
sonnambula e scalza.

Si avanza raminghe,
vicine. Sul limo
ingordo del mondo:
un passo e un affondo,
m’incaglio, m’infango
i piedi. Mi sveglio.

Ed ho mani vuote.
Ed ho braccia vuote.
Ed ho labbra secche.
Ed ho un ventre vuoto.

 
 
 
 
 
 

Solo

Solo un piccolo dolore. Un altro
ma minimo a tuo dire.
Non è stato che un rumore.
Non temerne: già era sordo il cielo.
Solo altro vetro a terra infranto.

Solo ora non ricordo il colore
dei tuoi occhi…
Lo squarcio è spalancato al resto.

 
 
 
 
 
 

Riflesso

Non voltarti ancora.
Non adesso che è un prato
il tuo volto, prealpino:
erba imbevuta di pioggia,
argento che dura
un tuo battito di ciglio.

 
 
 
 
 
 

Quadro

Ci sono lati di te che le dita
non arrivano a toccare.

Rimango a guardarti
come da fuori.

 
 
 
 
 
 

Tulipani

Il mio corpo disteso di fianco
ha forme adatte a comprenderti.
Il tuo corpo è un tulipano
raccolto intorno al cuscino.

Chiusi. Quasi a rimarginarci
in palpebre / petali / lembi…
Stiamo chiusi ancora.
Ancora un poco, un’ora…

Una speranza che si sfami
di molliche di pane. Uno sfiorarti
che distolga il presente
dal suo logorio: il tempo
che tutto ha preso.
Il tempo perso oramai.

La tua pelle ha l’odore
dell’ombra.
La speranza non ha storia.
Come la pioggia al suolo.

 
 
 
 
 
 

Il solco

Non ho bisogno della fede
al dito: il solco ha la forma del tuo corpo
disteso di fianco prima del sonno.
Ne percorro il disegno come un cieco
consueto al buonsenso del tatto.

È l’orma che ha segnato il tempo
camminando sui nostri piedi. Uguali
ai piedi dei figli. E dei loro fiori
sbocciati nel solco dai nostri semi.
Non ho bisogno di guardarti
nemmeno. Conosco a memoria
i margini: la linea curva e piena
del ventre, la tenerezza di labbra
capaci alla voce – suono di cui so
il sapore dolce del succo –

Ho attitudine alla tua pena
antica che di tanto in tanto esonda
oltre agli argini del solco, su un palmo
di mano e lo colma/allaga/feconda
e piano ne matura il frutto.
Ecco, non la temo: la aspetto
a fondovalle come fa la foce.
So che arriverai sempre mia stagione
svolta, così come venisti allora .
La sera, quando t’ho incontrata.

Non ho bisogno di nessuna
data. Era estate. Solo questo conta.
E che avevamo vent’anni. Gli stessi
che hai ora. Quelli che avremo domani,
uguali: appena un po’ più gravi
semmai. Simili a certi pesi
ma di piume o a certi sassi di fiume
rosi, malleabili; a quelle due rughe
impercettibili ma nuove che hai.
Pari al frastuono di un capello

caduto invano sul cuscino.
Io l’ho raccolto per legarlo al dito
nel luogo segnato, come un anello
d’oro bianco. No, no: non ho bisogno
d’averti accanto per amarti.

Tu sei al fondo, nell’incavo
del solco dove ancora scavi
e t’insinui. Nell’incessante
amalgamarsi che ci è dato.