parla piano, in un soffio, gli spiriti
non devono sentire, gli spiriti che vivono
nel buio dei tubi, che vagano tra il muro
e gli intonaci gonfiati, parla piano,
coi gesti che sappiamo, mentre fuori la città
ha spento tutte le luci e aspetta
gli spiriti che corrono la terra in cerca di carne
che corrono la terra chiamando per nome
finché uno non accetta, accende le luci, chiude gli occhi
parla piano ma gridalo, che finisca
questa vigilia che dura da sempre, dilla se c’è
la parola che ferma il riflusso, fuori dal conto
dei giorni e il calcolo delle lune, dilla ma
piano, soffiata oltre le ombre che siamo
oltre le ombre che noi siamo
se basta un gesto, lo stomaco stretto al pugno,
la notte che passa senza sonno, se basta un gesto
che sposta l’aria della fine verso il centro del mondo,
l’elenco si può modificare ogni momento, i nomi
dei morti, di anni trentuno, di anni ventiquattro,
se basta un gesto chi può dire: io non c’entro,
non conosco nessuno, non è neppure il mio momento,
se basta un gesto come girarsi, gettare con noncuranza,
scrivere una volta di più o di meno, non dire
non guardare, non controllare se basta –
avremo presto il panico alle spalle –
qualcuno dirà perché non l’hai detto,
come potevo aiutarti, bastava dire,
bastava un gesto
taci per cinque giorni
stacca la corrente
ribalta il tamburo
taglia le corde agli strumenti
getta i vestiti dalla finestra
riempi d’ovatta i piatti e i bicchieri
sbriciola tutto ciò che hai scritto
brucia le mappe, respirane il fumo
avvolgiti in polvere e bucce e fogliame
lascia che le cose si depositino sul fondo
bevi ciò che resta dal filtro dei giorni
getta i cadaveri nella foresta
(Giuseppe Nava, Nemontemi, Prufrock, 2018)
In questi testi tratti da Nemontemi (Prufrock, 2018), Giuseppe Nava evidenzia il rapporto tra l’uomo e il tempo, tra il reale e il metafisico, tra la parola e il gesto, con una forma quasi salmodiale, liturgica, e una ripetizione dei termini chiave del testo in posizioni funzionali, strategiche, del dettato.
Il primo invito è quello a parlare piano, “in un soffio”, che viene immediatamente associato agli spiriti – e dunque, de relato, alla dimensione metafisica e a un certo senso del sacro – che non deve essere disturbata dalla parola sconsiderata, sovrabbondante: essa deve essere addomesticata al rituale, deve diventare strumento associato ai “gesti che sappiamo”, anch’essi, misurati, che consenta di riconoscere quegli “spiriti che corrono … in cerca di carne”, per accoglierli, accettarli, diventarli. La parola diventa quindi strumento del sacro, come nella sua forma più originaria e primitiva, “che ferma il riflusso, fuori dal conto / dei giorni e il calcolo delle lune”, capace dunque di trascendere il tempo, gridata ma detta piano – e dunque con energia ma nel rispetto sacrale della sua funzione ieratica – il cui soffio vitale riesce ad andare oltre l’umano, “oltre le ombre che siamo”.
Ma la parola, per quanto funzionale a questa connessione, per quanto, nella sua primigenia efficacia nominativa, si fa voce del dio che crea relazioni tra l’uomo e ciò che lo circonda, resta inferiore al gesto. E allora, “se basta un gesto” a cambiare il mondo e le persone, a cosa servono le parole, a cosa serve dire “io non c’entro / non conosco nessuno, non è neppure il mio momento”, a cosa serve quando ormai è troppo tardi dire “perché non l’hai detto, / come potevo aiutarti”? Lo scarto tra la funzione ingannevole del linguaggio, che può diventare nascondiglio, via di fuga, e l’onestà dell’azione – spoglia di qualsiasi connotazione intellettuale e puro essere in relazione – appare evidente. Il tutto sempre in una dimensione di preghiera, in cui la parola di cui sopra sembra quasi circoscrivere l’essenzialità insuperabile dell’agire, senza nascondere il desiderio di superare il panico (che presto avremo “alle spalle”) dietro argomentazioni dichiarative, schermaglie logiche ma – sostanzialmente – dichiarazioni di inerzia, soffiate via istantaneamente dal gesto necessario, che, appunto, “bastava” (il che è come dire che le parole erano di troppo).
Il testo finale assume ulteriormente un carattere ieratico: con toni liberatori si invita a un periodo – che richiama il nemontemi, ovvero il periodo di cinque giorni del calendario azteco, ritenuto infausto, in cui astenersi da ogni attività e riflettere sull’anno trascorso – in cui è necessario lasciare andare tutto ciò che durante l’anno passato non si è rivelato essenziale. Naturalmente la metafora è ampia, e ben si adatta a porzioni più vaste dell’esistere: pertanto è necessario “tacere”, astenersi da ogni attività, silenziare ogni suono (rappresentato dagli strumenti musicali), fare a meno delle apparenze, sbriciolare “tutto ciò che hai scritto”, bruciare “le mappe”, e quindi i riferimenti che ci apparivano come delle certezze, un orientamento, perdersi nella polvere e nella natura.
E poi? Poi bisognerà attendere che “le cose si depositino sul fondo”, senza interferire: dopo aver fatto a meno di ogni cosa superflua, dopo averla lasciata andare, non resterà che l’irrinunciabile, di cui bisogna bere “ciò che resta”, facendone tesoro, e abbandonando ogni traccia del passato, affinché non diventi un’inutile zavorra: “getta i cadaveri nella foresta”, scrive Nava, indirettamente riecheggiando il classico noli respicere: perché i morti (e non ci si riferisce certamente solo agli esseri viventi, ma a ogni cosa di cui abbiamo testimoniato la fine), come ci insegna il mito di Orfeo, devono restare sottoterra.
Senza dimenticarli, ma senza nemmeno farsi trascinare giù dal peso della loro perdita, o della loro mancanza.
Mario Famularo