L’amore da vecchia – Vivian Lamarque


L’amore da vecchia, Vivian Lamarque (Mondadori, 2023).

Quieto e raffinato come «dono puerile» e saggio il lirico senso di provvisorietà. L’«inverno» della Lamarque è già alle porte, ma si sa: l’inverno finisce sempre e il saluto va al presente con fiori, piante e erbe «uguali tra altri fiori uguali,/ uguali sotto gli astri uguali». Il linguaggio si muove ora prosastico, ora colloquiale, ora molecolare ma sempre a scandire, a distinguere, a discernere. Umanissimo è il dolore per il mondo nel mentre la Natura continua il suo corso: «Oh di nuovo./ Un Paese in dolore/ tanti Paesi in dolore/ tutti sono in dolore./ Solo i fiori oggi sono in fiore». Ma la speranza è la passione del possibile dove troviamo quelle strutture del significato non altrimenti visibili. E lì la parola scopre che il male non è immutabile. Tutto ciò che rinasce dalla provvisorietà, da una condizione umana non murata, riflette la luce di ogni cosa. È quel bene primigenio di ogni cosa che va oltre la coerenza e l’immutabilità della morte: «Che paura fossi una foglia ma/ menomale sono un’alberella/ le foglie loro cadono, ma noi/ no». Il dialogo con se stessi mantiene intatta la propria coscienza e la misura del tempo che in Vivian Lamarque non si fa anestetico intransitivo ma movimento interiore e ci fa star bene là dove ci troviamo. Uno abita dove ama e il cuore è l’unica via di casa. Il centro è il sé che risale l’io con tutte le sue scorie, con le sue risorse, le conquiste amate e sofferte, con tutte le sue esperienze, e il desiderio congiunge la terra al suo mistero, al passo con le stagioni.

La direzione verso cui muoversi è la distinzione e l’ammirazione. La distinzione è la condizione per esistere. L’indistinto è inesistente, è il caos. Distinguere è capire ogni cosa per quello che è in relazione a un’altra. La parola della Lamarque distingue e ricompone in armonia la diversità delle stagioni della vita, il viaggio coerente immutabile di ogni cosa verso il suo destino: «Fa niente se non le scrivi come il cielo/ quando non scrive alla terra e la terra resta/ lì con la sua sete e qualche piantina/ muore ma tante altre no, oppure tante altre/ muoiono ma qualcuna no». Il caso fa parte del sistema, dell’Ordine. Dentro la parola c’è «il tetto della casa dall’alto», la miniaturizzazione della vita che si guarda rimpicciolita, di lontano. È questa una retrospettiva luminosa, lucida e quieta sul vivere e sulle regole che detta: «Mai l’inverno con la primavera/ [ … ]/ mai / un albero in fiore una fogliolina gialla guarderà/ anzi, ben lo sappiamo cosa combina d’autunno/ un albero alle foglie)». Sulla strada dei carmina docta «sta l’amore suo che si era immaginato». Sì, l’animo contemplatore, viator guarda l’amore e riconosce la patria del desiderio caduto: «Lugete o Veneres Cupidinesque/ e anime gentili, infelice nella sua gabbia/ piegato sotto l’ala lo spiumato capino». Solo quando si è già vista la propria stella si desidera, si sa la direzione verso cui muoversi, e, anche quando l’immaginazione sviene e lì soggiorna il non vero, l’ambiguità con tutte le sue differenti emozioni, la strada viene ancora tracciata dalla forza del desiderio e l’illusione prende il posto del possibile. L’intimo movimento del cuore ha la sua forza efficace anche quando l’atto esterno non è più possibile: «Bucami iniezione d’illusione, che due/ più due non faccia quell’esiguo totale/ che in gabbia non stia già cadendo dal suo filo/ quel press’a poco amare, sosia dell’amore».

La scommessa della parola è con il limite e la fine: «Come quando/sul più bello del ricamo/finisce il filo da ricamo?». Il richiamo è dei fiori che formano ghirlande di metafore: «Tinti d’azzurro chiaro/rari e delicati i fiori:» durano il tempo breve «ma per il tempo di questa poesia/duri l’azzurro – più che in cielo neve».

Alberi, prati, fiori richiamano alla qualità originaria delle cose, spiano le fragilità e l’andamento della vita ed «È cosa equa nei cimiteri/ togliere l’acqua ai fiori finti/ e darla ai fiori veri». L’unione intima di ciascuno col tutto è «su una tomba» dove «una spina ha fatto una rosa». È questa la rivelazione del senso universale di ogni cosa. È la forza infinita dell’amore che penetra in ogni oscurità, rigenera la Natura e la natura umana e si incarna realmente in essa.

Ma ciascuno ha bisogno della sua siepe per immaginare l’infinito. Così si può distinguere il qui dal là: «Se sul treno ti siedi/al contrario, con la testa/girata di là, vedi meno/la vita che viene, vedi meglio/la vita che va». La distinzione non è la perdita della coscienza per l’intero, non è il venir meno della sensibilità per il tutto, misura ogni cosa e il conforto è che si resta legati al flusso del tempo con le sue diminuzioni e le sue regole. Allora la matita ricalca quel che richiama della vita che fugge. La consapevolezza del limite è la stessa che tenta di travalicarlo con amore segreto: «per scrivere acqua/si scende sotto la riga come sotto terra.» e «Che anche lei/ la cicatrice/ persino lei/ la cicatrice/ possa/ un giorno/ diventare/ quasi/ felice?». Questo fiume calmo, ininterrotto dove scorrono pacati gli affetti lascia al sole di guardare cosa si nasconde nelle sue acque profonde. Nulla che sia angoscia o tristezza divorante ma speranza e sottile desiderio del presente che vince la morsa dell’attesa. Il sentire della parola dà la possibilità di riflettere, riguardare con semplice eleganza quei mari che ci hanno mutati. L’ammirazione ricostruisce il tempo interiore, le amicizie, gli amori, gli affetti, le pareti di un dialogo infinito col mondo fragile e radioso. Si rimuovono le assenze e in ogni parola rinasce una scintilla di condivisione che non si spegne facilmente. L’amore si fa universale e la sua non è più un’assenza sancita dalla morte come in Questa quiete polvere (1983). L’amore si fa adulto e sente il tepore degli anni. In questo prolungamento di viaggio l’amore è prima di tutto meraviglia anche della fine: «Alla sua età/ è normale morire./ Nessuno si meraviglia/ se uno alla sua età/ muore/ Nessuno./ Ma lei sì!/ Lei che sarei io, sì./ Si, lei si meraviglierà,/ io mi meraviglierò./ Tanto!». La regola che passa è l’alba che si attende ogni giorno e resta infinita per tutti.

Il confronto è dell’essere umano con la Natura che resta sempre uguale di fronte all’Ordine e si fa transfert di un amore inviolato, capace del risveglio: «Capaci tutti anche le violette/ di aprirli all’alba gli occhi/ perché noi no?». L’atto puro della Natura è una rêverie benefica che ci aiuta a vivere un istante ai margini della vita per recuperare quei sentimenti delicati, quella sorridente consapevolezza che ci libera dal tempo.

Questo libro recupera il senso della condizione umana con le sue nobili possibilità. Tuttavia non sottostima la vulnerabilità del mondo e il male perpetrato dai pochi sui molti: «Hanno attraversato mille e uno mari/ e uomini-squali per approdare infine/ su questa casa mobile che apre le porte/ che le chiude, fiumi che salgono,/ che scendono, che da generazioni/ e generazioni, anche per noi visi pallidi,/ al mille per mille d’interesse pagarono/ in anticipo il biglietto». Il verso ci chiede come possiamo essere indifferenti di fronte a una infinita sofferenza e a una infinita solitudine, a un grido così forte di aiuto. La riflessione è sulla strage delle speranze stroncate dall’indifferenza. In questo silenzio del cuore la parola cura. Il «prezioso bottino» è per la Vivian una «cosmea» colta nel giardino della Emily Dickinson e restituita alla sua tomba in cambio di «un’erbetta con zolla». Il verso non ha certezze ma questo tu che è dinanzi a noi è pieno di quegli orizzonti di senso, di quelle carezze dell’animo in cui fiorisce fragile e lucente la capacità di guardare la vita. «Come in un film» si racconta di una lacrima saggia e luminosa.

Rossella Frollà

 
 
 
 
Sono un Autunno
 
Sono un Autunno.
Anzi, il tempo di dirlo
e ora sono una Inverno.
Che paura fossi una foglia ma
menomale sono un’alberella
le foglie loro cadono, ma noi
no.
 
 
 
 
 
 
Le case degli uccelli
 
Le case degli uccelli non nuocciono al paesaggio.
Non pesano niente, hanno il colore degli alberi
e non perdono mai di vista il cielo
né la terra, né il tra cielo e terra.
Ci si entra senza chiavi, muniti solo di ali
ci si posa, si chiudono piccoli occhi
si piegano ali che non pesano niente
e ci si riposa, per domani ricominciare –
a volare.
 
 
 
 
 
 
Dipenderà dalla poesia e dalla rosa
 
Senza la fine dell’inverno oggi
questa mosca irrequieta
che mai si posa. E lei?
Cosa ha concluso oggi lei?
Ha smosso con un legnetto
la dura terra della rosa, scritto
comprare concime, lavato
un piatto, pagato un conto e
raddrizzato un quadro, scritto un verso
di poesia, sarà poco o qualcosa?
Dipenderà dalla poesia e dalla rosa
-una tra i fogli l’altra tra le foglie –
se di qualche millimetro col tempo
cresceranno, o se resteranno lì inerti
sul foglio e nel vaso, senza una nuova
parola, senza una foglia nuova.