La tradizione – Jericho Brown

La tradizione, Jericho Brown (Donzelli, 2022, a cura di Antonella Francini).

Un nero omosessuale lamenta che nella “terra dei liberi” i neri, in quanto neri, devono marcire in un ghetto. Potrebbe essere Jericho Brown, ma non lo è. Così, con un gioco di specchi, Antonella Francini sceglie di aprire la sua postfazione a “La tradizione”. Non parla subito dell’autore, una delle figure più interessanti della poesia americana contemporanea, né dell’opera, vincitrice del premio Pulitzer nel 2020 e ora pubblicata per la prima volta in italiano dalla casa editrice Donzelli. Sceglie invece di dare voce a James Baldwin, romanziere, che di Brown è precursore e punto di riferimento e scrive nel 1963. Scrive più o meno degli stessi temi, e con gli stessi toni, che si ritrovano dentro “La tradizione”, a testimoniare che quasi sessant’anni sono passati senza passare davvero, senza sanare la ferita della discriminazione razziale ma solo inglobandola nella carne come un bubbone velato e infetto. Jericho Brown, quarantasei anni, nato e cresciuto a Shreveport in Lousiana, professore all’università di Houston e poi all’università Emory di Atlanta, prova a scendere nelle pieghe della questione razziale, esaminandone l’anatomia da più prospettive. La tradizione a cui si riferisce è innanzitutto lo schiavismo, la piaga originale che lacera la comunità nera degli Stati Uniti, la reminiscenza dolorosa di un rapimento, di uno “stupro”. Lo ricorda la poesia d’esordio della raccolta, “Ganimede”, dedicata al giovane coppiere degli dei rapito da Giove e costretto a salire in cielo contro la sua volontà. Venduto dal padre in cambio di cavalli, secondo la versione del mito accreditata da Brown. “Un uomo baratta suo figlio coi cavalli”: il primo verso mette subito in chiaro la questione, e insieme ne apre un’altra, non meno centrale. Sulla tradizione dello schiavismo si innesta un’altra tradizione, un altro stupro più sottile, condiviso con tutti i membri della società americana, ma ancora una volta più gravoso e diabolico per i neri. È il capitalismo, l’idea di barattare la dignità umana per stare in una società che compra e paga, che alimenta la febbre del successo e il mito del riscatto. Alla gente del suo “paese” (s’intende la comunità afroamericana) Brown imputa l’idea per cui “non ci faranno del male se ci possono comprare”, l’atteggiamento da bestie domate, stipate in stalle che puzzano di Paradiso, “quella terra lontana tra Promessa e Apologia”. Ora, sulla terra, la sua gente abita un “Regno ereditato”, alla cui definizione non ha partecipato, in cui è stata assimilata come un corpo estraneo. Lui per primo si sente “a kind of camouflage”, “una specie di camuffato”, costretto a vivere in un territorio occupato, a nascondere i suoi veri sentimenti e compiere percorsi tortuosi per barcamenarsi su un campo minato.

Delle tre sezioni de “La tradizione”, la prima ha un più evidente piglio civile e mostra, al tempo stesso, un approccio complesso, originale. L’America, dice Brown, è ancora alle prese con la questione razziale, ha i tratti di una società in cui i bianchi si sentono signori e i neri subiscono soprusi e discriminazioni; e però vale la pena esaminare tutti gli aspetti del problema, far suonare tutte le campane. C’è il momento dell’attacco frontale di “Bullet points” (“mi fido più dei vermi […] di quanto mi fidi d’un agente della legge del paese”), un incalzante j’accuse, insieme ironico e drammatico, contro gli abusi della polizia verso i cittadini afroamericani e contro i goffi tentativi di mascherarli. Tema delicato fin dal titolo – un gioco di parole che allude ai fori di proiettile nel corpo delle vittime e insieme, in grafica, ai punti che precedono ogni voce in un elenco di cose o argomenti – tradotto da Antonella Francini con “Elenchi impallinati”. Ma accanto alla discriminazione Jericho Brown denuncia anche l’auto-discriminazione, il meccanismo mentale e sociale attraverso cui i neri costruiscono da soli, in modo per lo più inconsapevole, il proprio ghetto. “Come un essere umano” descrive con ferma intensità emotiva una scena emblematica di violenza familiare, in cui emergono la ferocia e il fascino dei padri, la fredda remissività delle madri, i ricatti emotivi, gli affetti strozzati dalle regole non scritte, sotterranee, di una comunità incattivita dalla lotta per la sopravvivenza. Più avanti “Eroe” è un grido d’amore accorato di un figlio a una madre, che gli mostra affetto solo baciando i suoi figli e sulla quale è impossibile “fare colpo”. Il tono di Brown è dolente: “La gratitudine è nera -/ nera come un eroe di guerra che torna in un paese che puntava sulla sua morte./ Grazie Dio. Più scuro di così non può diventare”.

Non è un processo in tribunale, “La tradizione”, ma una lunga seduta di analisi in cui Jericho Brown sceglie la via dell’intimità e fa largo uso della metafora. Nel testo che dà il titolo al libro i “nomi/ imparati nella calura, in elementi che i filosofi/ classici dicevano, vi cambieranno” non sono più quelli fantasiosi di fiori ma quelli insanguinati di John Crawford, Eric Garner e Mike Brown, ragazzi neri vittime della violenza di Stato nel 2014. Fiori pure loro, sciupati troppo presto, intrappolati nel video di una telecamera di sicurezza o di un passante, in filmati che si possono mandare e rimandare, bloccare, far scorrere avanti e indietro per estendere quelle vite consumate in pochi istanti. Che di quelle vite restano l’unica prova e la magra consolazione.

Nella seconda e nella terza sezione “La tradizione” si allontana dal tema razziale e il discorso si fa ancora più privato. C’è vita fuori da “non esiste brava gente bianca”: la riflessione lucida e poetica sul trauma infantile di “Corrispondenze”, lo sguardo protettivo del genitore (e i suoi limiti) in “Le pesche” e “Un uomo giovane”, l’analisi sconsolata di un amore epidermico in “Cavallo di Troia” (“Patroclo è morto perché/ non riusciva a vedere/ cosa fosse davvero dentro l’armatura del suo amante”) e più in generale una carrellata di situazioni amorose in cui una languidità un po’ meccanica rappresenta l’incomprensione e la separazione, anche quella definitiva della morte (come in “Girandoti”).

Ci sono molti letti, corpi uno sopra all’altro, uno vicino all’altro, corpi rannicchiati per far spazio ad altri che mancano, bisogni e desideri, speranze disincantate e ricordi dolorosi. Per Jericho Brown tutto si tiene. Ancor più: tutto si spiega. Come in “Sul mio furore”, dove il piacere accarezza l’urgenza, abbraccia la precarietà: “Amo un uomo e so che potrebbe morire/ e non per malattia/ e non per mano sua/ ma per il colore di quella mano e di tutta/ la sua pelle perfetta”.

Lo sfrangiamento dell’io, una sempre più evidente pluralizzazione (tanto che a un certo punto non si distingue più il confine tra autobiografia osservazione esterna) si ricompone sul finale, quando Brown torna a se stesso, alla sua figura e al suo senso di uomo e poeta, tra rivendicazione e ironia. “[…] Sono predisposto/ per qualcosa di vasto. Si estende/ ampio come il mare. Sono più d’un conquistatore. Più grande/ del coraggio. Io non marcio. Io sono quello che salta”, scrive in “Attraversando”; e in “Salvezza”, più avanti: “[…] Non sono un santo/ perché io cerco d’essere un suono, qualcosa/ che ricorderete/ quando avrete vissuto tanto da non credere al paradiso”. Poi, in “Scuro”, smonta se stesso: “Sono stufo della tua tristezza,/ Jericho Brown, della tua nerezza,/ dei tuoi libri […]./ Chiunque tu conosca è/ svitato come te. Chiunque tu ami è/ altrettanto scuro, o almeno altrettanto nero”. Nerezza e scurezza, che s’inseguono per tutto il tempo nel dramma e alla fine si raggiungono su una nota scanzonata, sono forse il suggello ideale di un libro diverso da come lo si immagina. Più semplice e al tempo stesso più complesso, in cui il piano nell’intimità prevale nettamente su quello della storia e del racconto collettivo. E non è un male. Se manca una ricognizione più complessiva sul valore della “tradizione”, c’è però il calore della vita vissuta, l’autenticità che rende credibile la materia poetica. Con questa materia la traduttrice Antonella Francini si destreggia egregiamente, aggirando le insidie irriducibili dell’inglese (la compressione dei concetti, i giochi di parole spiazzanti) e trovando in italiano una forma che risponde alle caratteristiche del libro. Nelle sue espressioni migliori Jericho Brown riesce a stare un passo avanti rispetto al sentire comune; sa dare a quello che descrive slancio lirico, elevarlo a canto (con tutto quello che di toccante e trascinante c’è nel canto) senza astrarlo e sottrargli incisività.”La tradizione” offre davvero un contributo alla coscienza (non solo civile) di chi affronta queste liriche senza pregiudizio. E soprattutto realizza l’intento dell’autore: “La poesia è un gesto verso casa”.

Leonardo Guzzo