Ci sono libri che sono tappe. Punti fissi di una letteratura. Possono essere punti oggettivi e condivisi (nella misura del possibile) quando dichiarati dalla Storia, o soggettivi soprattutto negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione. Alcune di queste tappe, recenti, sono state Umana gloria di Mario Benedetti del 2004 (al quale pordenoneleggepoesia.it ha dedicato un lungo speciale con interventi di – link sui nomi – Gian Mario Villalta, Cristiano Poletti, Riccardo Socci, Gabriela Fantato, Luigi Fasciana, Michele Maggini) ed Elis Island di Silvio Ramat (Mondadori, 2015). Altra tappa, almeno per chi scrive, è stato Exfanzia di Valerio Magrelli (Einaudi, 2022 una recensione di Laboratori Poesia QUI) così come, con tutta probabilità, diventerà l’acclamato Paradiso di Stefano Dal Bianco (Garzanti, 2024). Ed oggi, chi scrive ne è certo, La scatola onirica di Maurizio Cucchi (Mondadori, 2024).
Se Guido Monti su “Azione” (QUI) parla, riferendosi all’opera, di “un libro tra i più acuti degli ultimi anni, ove confluiscono anche talune poesie già pubblicate tra il 2021 e 2022 in altri volumi. Egli traversa, ancora una volta, l’aperto della vita intesa come continuo accadere, con parole che mantengono lo spessore della vibrazione, la commozione dello stupore, anche l’indignazione talvolta, per un corpo sociale che come diceva il suo caro amico e maestro, Giovanni Raboni, non è divenuto mai pienamente comunità. Un libro, mi si permetta, che contiene anche un invito, forse involontario, per tutti i lettori di vivere per ricercare; cosa?“, diverse altre recensioni si focalizzano sul dato onirico in relazione a “subbugli dell’esserci che, a contrasto, vanno a sedimentarsi in quella ‘mediocrità serena’, ‘dolcissima / mediocrità innocua e gentile del mondo’ nel cui bozzolo si chiude il poeta che prospera nell’oblio. Il titolo rinvia al lavorio creativo e assemblativo che si svolge nella mente dopo il primo sonno, a quella rutilante ruminazione, composta di incubi e lacerti più diversi ed opprimenti, che si sfila nella scatola cranica come oniricità associativa, che dalle divinazioni romane è stata scavata fino a Freud ed oltre (Antonio Lotierzo in La Presenza di Èrato, QUI).
Stessa cosa Matteo Bianchi che, sulle pagine del Sole 24ORE Cultura (QUI), parla di “movimenti mentali affrancati dal tempo e che cuciti insieme danno forma a un corpus stratificato, in cui l’autore tenta di raggiungere, scavando, un’origine pre-verbale e persino pre-umana. Sebbene gli ormeggi siano tangibili — Casa Cucchi, microcosmo reale e toponimo pavese che orienta l’avvio — il viaggio si sposta subito in una dimensione altra, onirica appunto, che prende il sopravvento. Lo spazio privato e rurale si fa teatro di evocazioni, di echi semantici e genealogici. È l’epica minore di una progenie che non ha bisogno di rivendicare allori, poiché affonda nel “quartiere di lignaggio” la propria etica“. E prima di lui Cecilia Ghèlli, sempre nella medesima testata (QUI), che suggerisce una “sorta di vaso di Pandora nel quale si muove l’impasto «informe di passaggi insensati» e la «trama sconnessa» dei ricordi da ricucire in questo viaggio di vita e passione poetica che si snoda come «traversata» verso un’origine. Potrebbero esserci analogie con le sequenze di un’indagine psicoanalitica: sogni, ricordi, luoghi, volti di persone che s’intrecciano“.
Restando nell’ambito dell’onirico che, chi scrive, trova solo parziale, torna alla mente quale antico amore scolastico il Somnium Scipionis di Cicerone. Una rivelazione etica e cosmologica in sogno che tocca l’universo, l’armonia delle sfere celesti, l’anima. Cucchi, che un poco giocosamente potremmo definire un anti-Scipione contemporaneo, non subisce alcuna rivelazione ma anzi sottolinea quello che è un assunto della sua poetica: la “dolcissima mediocrità innocua“, o “mediocrità serena dell’esserci“, del mondo e dell’uomo nelle diverse tappe del suo disfacimento, dell'”opaca trafila delle cose” di sereniana memoria (“Ma l’opaca trafila delle cose / che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo, / la spola della teleferica nei boschi, / i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità, la lenza / buttata a vuoto nei secoli, / le scarse vite, che all’occhio di chi torna / e trova che nulla, nulla è veramente mutato / si ripetono identiche“, Vittorio Sereni). Cucchi sembra opporre uno sconfinamento onirico alla rivelazione celeste, un’ironia e un’instabilità connaturata nell’uomo alla mente razionale e divina, un paesaggio collinare (Casa Cucchi) e linguistico a quello cosmologico e astrale di Cicerone, un’etica dell’attenzione e del dettaglio alla virtù, l’inquietudine poetica e l’afasia alla consolazione dell’anima. Tale contrapposizione definisce l’oggi misurandosi col passato.
La scatola onirica si presenta, anche all’interno dell’espediente narrativo del somnium, come un viaggio che sovrappone e amalgama due percorsi solo apparentemente diversi: paesaggio e linguaggio. Se nel primo il movimento è fisico, nel secondo è prettamente psicologico, intimo, ed è per questo che il Somnium Scipionis ci viene in soccorso: nella veglia la mente non si presta ad accettare la realtà quanto nel sogno la rivelazione. Fossero anche “Associazioni incongrue, dunque, / ambienti, figure, personaggi o il mistero di una vicenda / per frammenti sconnessi“.
L’opera, va subito detto, pur consistendo in parte in una raccolta di testi già usciti in volume (Interlinea nel 2021, Edizioni Il Robot Adorabile di Adalberto Borioli nel 2022, la rivista «RIEF, Revue italienne d’études françaises» nel 2023) ha una struttura precisa che denota la volontà di cercare l’uomo, la sua natura.
Ma come immaginarne il volto?
Eppure, piccolo, eccolo lì, tarchiato
e magro, nel suo abito d’epoca,
semplice ma lindo, eccolo lì
dire il suo nome di famiglia,
il primo in assoluto a farlo, ma
con timidezza, ritrosia e insieme
orgoglio timido, per un contratto, chissà,
di bestie e terra, proprio là, nel feudo
detto Malaspina, oggi paese
di Ponte Nizza. Forse allevatore,
minimo possidente, forse casaro.
Echeggia quell’eccolo in diverse parti, come link interni:
Eccolo infine ritrovato dopo tanto, tanto tempo…
L’ho riconosciuto, sì. L’ho visto
davvero un po’ stranito. Ma era proprio lui,
l’allora ragazzo dall’insolito, per me,
nome elegante: Sabatino. Il suo racconto, condotto
a sprazzi faticosi, è stato insieme
sinistro e rivelatore ed è così
che ho cercato di ricomporne i passaggi.
A partire dai sintomi, chiamiamoli
iniziali, che lo avevano afferrato,
fino al loro espandersi.
Un affanno pervasivo lo toccava, nascendo
da quella sua antica mania:
mania della parola…
[…] totale e immaginaria. Ma eccolo lì
l’umanissimo artefice, piegato
verso il suolo a spargere, con l’impeccabile
esattezza nel gesto di un pianista,
il frutto che cola concreto e si rapprende
del suo sentire, da vero virtuoso e grande visionario.
Per poi concludersi in maniera solo apparentemente privata con:
Eccomi infine ridotto così
nel piccolo recinto del mio
quotidiano, forse sfuggendo
il terrore dello sfinimento.
L’espressione “quartiere di lignaggio”, titolo della prima sezione, è un termine usato in antropologia per indicare una comunità originaria riconducibile a un unico ceppo familiare, un gruppo in cui il lignaggio, cioè la discendenza da un antenato comune (spesso maschile), costituisce il fondamento dell’identità collettiva. Ed è infatti di identità che Maurizio Cucchi parla quando percorre tale viaggio alla ricerca delle radici (e a un certo punto non importa più se fisico o mentale perché le due dimensioni del percorso si confondono l’una con l’altra). D’altronde è l’autore stesso a dire: “E allora vado io in mentale / escursione nei tempi in cerca di tracce / in luoghi sparsi e minimi partendo / in un circuito di radici nella domestica / geografia del minimo“. Queste radici sono memoria collettiva e personale nei legami profondi che uniscono luoghi, nomi e persone. Infatti l’uomo “tarchiato / e magro, nel suo abito d’epoca, / semplice ma lindo, eccolo lì / dire il suo nome di famiglia, / il primo in assoluto a farlo” del primo testo torna nel sesto:
E quel piccolo uomo
intravisto, come in sogno o quasi
per un contratto e poi
dall’ufficiale parroco del capoluogo,
dichiarava quel nome di famiglia
in pieno esordio incerto, eppure
già codificato nelle voci, chissà…
Da cuculo o da colle o invece del soggetto
che va a far nido nella dimora della sposa,
nella casa della comandante, la regiura…
Ma quanta nascosta vita, allora,
rivive nei nomi dei luoghi e della gente,
nel lento e indifferente costruirsi
di legami e lignaggi. E neppure
ci pensiamo, ormai…
L’autore si presenta come un soggetto indagatore delle radici capace di comprendere appieno la (poi terribile) coincidenza tra identità ed etimologia.
Ma a questo punto è inevitabile
per il soggetto indagatore tornare a muoversi
in modo puntiglioso sulle tracce
minime, sparse o immaginarie
di radici e origini a lui ignote,
nel gioco arduo eppure sorridente
di una mitologia più o meno familiare,
nel poco territorio le cui voci
anche ignote tornano a lui
come da un fondo oscuro e incancellabile
che pure accoglie dalla sua stessa voce
come una lingua, un dialetto, comunque,
in prima persona mai parlato prima.
Che torna anche nella sezione successiva, Macchina onirica:
Comunque, mi dico,
Adesso sono vivo, porche parole le dico,
giusto il minimo, in milanese.
E sempre più mi sgorga, non so come,
naturale, la parola antica e ruvida
del territorio, da chissà quali
remotissime radici.
Le radici di un essere umano sono radici linguistiche dove la ricerca del passato s’interseca e svela il presente, anche quand’esso è “una parvenza / un trucco vile che nasconde / la nuova tappa del disfacimento“. Nonostante la suggerita condanna dell’esistenza Maurizio Cucchi trova un approdo sentimentale che percorre l’io, che diventa certezza, oltrepassando perfino i limiti dell’etimologia e del linguaggio e diventando aperto abbraccio.
Il senso di durata, iniquo, del nostro
così precario esserci… Cronaca infima
tra desolazione e aperto abbraccio.
La sezione “Dediche e devozioni” continua il percorso di scoperta dell’identità attraverso le parole, la loro storia che è la storia delle persone. Su tutti il maestro e amico Giovanni Raboni:
Ti ripenso nella tua tensione mite
e insieme profonda verso una società
civile, capace di arrivare all’ideale
comunità dei vivi e dei morti sentita
nel tuo pensiero attivo, che ci arriva
come un limpido messaggio
sempre più necessario e da inseguire
nella giusta fedeltà a un vero maestro.
Il maestro come radice di linguaggio “verso una società civile”. Non un tono, un’identificazione, ma un vero e proprio approccio alla parola, un motivo alla poesia.
Proseguendo nell’opera, la sezione “Sfiorando l’afasia” si ricollega idealmente al personaggio della prima che diceva “il suo nome di famiglia”. Sabatino, questo nuovo personaggio, scava però verticalmente nell’etimologia delle parole come una mania, una mania di verità.
Un affanno pervasivo lo toccava, nascendo
da quella sua antica mania:
mania della parola…
Ormai se ne sentiva quasi afflitto: «In fondo
– diceva – quando parliamo non sappiamo neanche bene
che cosa stiamo dicendo. Ogni parola possiede
una serie interna così vitale, così
profonda e varia, complessa
di strati e vissute vicende, di passaggi
e mutazioni nei secoli, che spesso
anche il più attento si confonde o usa
la parola senza capire, sapere
quali vertiginose, mirabili acrobazie
quella parola ha subito in terre e epoche diverse.»
Arrivando a vere e proprie lezioni di etimologia:
Poi insisteva, tra lo sgomento e il faceto: «E la parola
“formidabile”? Di solito la usiamo per dire ammirati
“eccezionale”, “straordinario” ecc. Magari in:
“era una ragazza formidabile” o
“un giocatore formidabile”… E invece,
a sua volta provenendo dal latino, da formidare,
dunque “temere”, vorrebbe dire piuttosto
che fa spavento, “terribile”…»
Ma dove porta tale ricerca etimologica della parola che di fatto è svelamento della realtà? Sabatino, purtoppo:
[…] Rischiò così
di spingersi fino alla pura voce e al gesto, a un passo
da una semi afasia. E a volte scriveva,
su sparsi biglietti, strane frasi, per esempio:
“Diverrò homo ergaster della parola, scenderò
al più semplice e remoto, primitivo mugugno.”
Quasi a chiedersi se all’origine della natura umana non ci sia, appunto, quel “semplice e remoto, primitivo mugugno” a cui si è opposto il primo personaggio quando “dichiarava quel nome di famiglia / in pieno esordio incerto, eppure / già codificato nelle voci, chissà…“.
Come diretta risposta a tale terribile suggestione (perché, per quanto zanzottiana, appare diversamente declinata: in Zanzotto era un linguaggio pre-grammaticale, corporeo, una forma di espressione non razionale che si collocava tra suono e significato, tra gesto e parola – in Sabatino è più un suono non articolato che evoca il corpo più che il concetto, la voce prima del linguaggio, un avvicinarsi quasi a un vuoto primigenio che disincanta e dispera) Cucchi esplora tutta una serie di dediche che spaziano tra materia del corpo e del linguaggio (termine talmente centrale nell’opera cucchiana che il lettore perdonerà le eccessive ripetizioni qui presenti), o meglio dei linguaggi. Tra narrazione, figura, pittura, atto, tracce. Nella sezione “L’immagine, la parola” l’autore si appoggia/confronta con Jean Fautrier, Lucio Fontana, Alexander Calder, Fausto Meloi, Alberto Giacomei, Graham Sutherland, Mark Rothko, Francis Bacon, Jackson Pollock, Alberto Burri, Peter Blake, Robert Rauschenberg, Pino Pascali, Jannis Kounellis, David Hockney, Anselm Kiefer, Mimmo Paladino, Antony Gormley, Nino Longobardi, Omar Galliani, Leonardo Nava, Julian Schnabel.
Ecco l’insorgere di immagini
come residui onirici in un disegno
che non scioglie l’enigma né si impone
di farlo, ma lo assume come proposta
apertissima e virtuale che si carica
di un senso molteplice e cangiante,
nella sostanza ordinaria di un comporsi
nel vivo meccanismo delle parti.
La sezione “Mente cielo materia” appare infine come una disincantata riflessione personale che in qualche modo prende atto del presente.
Mente, eh già… Ma dove sarà mai,
dove mai sarà la mia? Qui in alto,
nella testa, negli infiniti labirinti
misteriosi del cervello? In compagnia,
chissà, dello spirito e dell’anima?
Quale incertezza, ahimè, mi prende…
E se non ci fosse, dico io,
la mente? Se fosse un pretesto,
un’illusione per distinguerci
dal buon asino o dal bove?
Del resto ormai la mente
è caduta in disuso o semmai
viaggia depressa nel ventre.
Soggetto all’abitudine e suo quieto
complice, rimugino sereno vecchie litanie
su questo marciapiede dove assorbo
la media quiete e la dolcissima
mediocrità innocua e gentile del mondo,
in cui, ancora, prospero nell’oblio.
Ma ecco l’antico attacco ruvido:
scagnare, scorlire, usmare, davanti
alle vetrine del sarto e del barbiere chiuse,
col mio poco bagaglio, nell’“opaca
trafila delle cose” di un viaggiatore vile.
E così non è più vero, come credevo,
che l’abitudine non è un conforto.
Maurizio Cucchi con quest’opera invita alla rivelazione delle parole che va di pari passo con la ricerca di sé, delle proprie radici. Ma è il linguaggio, la parola, l’unica vera possibilità di conoscenza e di svelamento (e costruzione) dell’identità. E seppure nei testi aleggi lo spettro della “nuova tappa del disfacimento” è innegabile che le parole e i loro significati siano ancora un possibile approdo per l’uomo e il suo passato e presente e soprattutto futuro. Non una semplice casa ma un vero e proprio tempo dove collocare la scatola onirica che è la macchina umana, la materia identitaria che siamo.
Ma Maurizio Cucchi, pur trattando apparentemente di questioni direttamente riferibili all’io, al privato che flagra e si espande nella pagina percorrendo luoghi e significati, proprio in virtù della natura collettiva della poesia riesce a fare un discorso che tange la realtà e la memoria dei molti, dei tutti. Così come abbiamo detto in riferimento alla memoria collettiva e personale nei legami profondi che uniscono luoghi, nomi e persone, va sottolineato un altro aspetto che al momento è passato inosservato. Al netto della traduzione di La Griesche d’Hiver di Rutebeuf confluita nella sezione “La sventura d’inverno” (e che riporta alla memoria un’altra importante operazione editoriale, sempre mondadoriana, quale è stata Visioni dell’aldilà prima di Dante del 2017 – traduttori: Maurizio Cucchi, Mary Barbara Tolusso e Giorgio Prestinoni) e che fluisce senza soluzione di continuità nell’architettura narrativa dell’opera (d’altronde è evidente la consonanza tra i due poeti: Rutebeuf è noto per le sue opere satiriche e autobiografiche che riflettono le difficoltà della vita quotidiana) c’è un aspetto che ad oggi chi scrive non ha riscontrato in alcuna recensione o osservazione sul libro e che appare come un sussurrato invito non più al solo lettore generico.
L’autore pare, con alcuni accorgimenti che sono passati sottotraccia, rivolgersi anche a quei lettori poeti che oggi costituiscono lo zoccolo duro del “pubblico della poesia” di cui Berardinelli già nel 1975, e che oggi al netto di qualche frangia “emotiva” (a cui corrisponde una scrittura altrettanto emotiva non di rado molto visibile) ha visto un peggioramento sensibile verso quella stessa afasia di Sabatino pur nell’enorme differenza di significato (la perdita parziale o totale della capacità di esprimersi o comprendere il linguaggio, quale è l’afasia, in Sabatino è ricerca dell’origine che si scontra con un ipotetico horror vacui di fronte alla realtà, quasi un platonico scoprire che il sole è spento, mentre nel nostro pubblico dei poeti è lesione linguistico-culturale che coinvolge tutta la società letteraria, se mai si potrà tornare a parlare di società in riferimento ai poeti e non un sistema colloidale che solo se visto da lontano sembra un coeso banco di nebbia).
La soluzione trovata è sottilissima: appaiono infatti due testi ripetuti ma che acquisiscono due differenti valenze, quasi ricordando il “Quoth the Raven: Nevermore” di E. A. Poe che man mano che viene ripetuto dice qualcosa di diverso. Non solo un esercizio di stile ma una ridondanza poetica all’interno di un tessuto testuale che si presenta (ricordiamo che siamo sempre all’interno di un contesto onirico) guidato dalla logica intermittente e associativa (o incongruente, si ricordino i versi: “Associazioni incongrue, dunque, / ambienti, figure, personaggi”) del sogno. La ripresa letterale di “Un’altra volta mi parve di vedere” e “E quando i colori nei confini” che si trovano nella sezione Macchina onirica come testi separati, e in “Il libero fluttuare” nella sezione “Mente cielo materia” come chiusa di un unico testo, suggerisce un movimento di stratificazione ed evoluzione del significato pur nella corrispondenza della medesima forma.
Un’altra volta mi parve di vedere
un vorticare di nubi sinistre
come un diffondersi di strani
veleni portati dal vento
di vortici casuali disegnati
sulla realtà del mondo che laggiù
mi appariva minima estranea e
sempre incomprensibile.
E quando i colori nei confini
si mostrano più netti più potenti
hai l’impressione che ci illudano
di un tempo di rinascita felice
che è invece una parvenza
un trucco vile che nasconde
la nuova tappa del disfacimento.
È inevitabile sottolineare quanto questo movimento sia a tutti gli effetti quello che accade alle parole nel loro percorso etimologico, e che nel libro viene ben spiegato (si ricordi: “«E la parola / “formidabile”? Di solito la usiamo per dire ammirati / “eccezionale”, “straordinario” ecc. Magari in: / “era una ragazza formidabile” o / “un giocatore formidabile”… E invece, / a sua volta provenendo dal latino, da formidare, / dunque “temere”, vorrebbe dire piuttosto / che fa spavento, “terribile”…”, ma anche “E qui apriva il discorso a esempi elementari, che lo avevano prima / fatto sorridere ma poi turbato. «Prendi, tanto per fare chiarezza, / quando dici: “Vado a fare la spesa, vado al negozio”. Ma perché / chiamarla “spesa”? E poi: cos’è il “negozio”? Diciamo: un locale / dove compro qualcosa? Ma la parola viene da negotium, cioè attività, / affare ecc. composta da nec e da otium e dunque negazione dell’ozio, / dell’inazione, del riposo. Tutt’altro, vedi…»”).
Queste duplicazioni rafforzano la percezione di una realtà frammentaria e, seppure ricorsiva, dove il vissuto si riformula in nuove configurazioni ed evoluzioni e significati stessi. In particolare la collocazione verso la fine d’opera delle poesie ripetute nella sezione “Il libero fluttuare” riaffiora come una testimonianza della “dolcissima mediocrità” di cui le pagine precedenti. Ma l’atmosfera è perturbante: “nubi sinistre“, “veleni portati dal vento“, “parvenze di rinascita che si rivelano illusioni” riportano un mondo simile a un quadro sfocato. L’ambiguità emerge ancor più evidente se di nota da un lato l’aderenza più chiara al mondo, dall’altro il sospetto che questa chiarezza sia solo un’altra forma di illusione.
Un’avvertenza, chiara, ad attenzionare le parole e tutti gli strumenti delle parole per rendere meno mediocre la vita e la storia umana. Ridando spessore e significato alla materia del linguaggio laddove si è creata banalizzazione. Laddove l’identità stessa si è talmente semplificata da diventare un qui e ora (nemmeno un hic et nunc) smemorato, sordo, cieco. Un fragile istante che si autoconsuma in un “nuova tappa del disfacimento“.
Alessandro Canzian
Eccomi allora proiettato chissà quando
e chissà dove e come, senza volere in un luogo
ameno o astruso. Ecco
una umana figura ignota
che si avvicina e che mi parla, forse
da un passato di cui non ho memoria, ed ecco
che tu mi soccorri ridente e insieme andiamo
per vie ciadine che non riconosco.
Siamo noi, il mondo, il passato
e il presente che si incrociano
nel mistero di una vicenda
per frammenti sconnessi.