Esiste un luogo dell’Eneide in cui il personaggio di Enea sembra poco coerente con se stesso o, per meglio dire, con l’immagine che di lui Virgilio ha voluto disegnare e consegnare ai posteri. Si tratta di un episodio che gli addetti ai lavori definiscono “la scena di Elena”, e sulla cui autenticità si è discusso a lungo. Ai vv. 567 s. del secondo libro, dedicato alla rievocazione dell’ultima notte di Troia, l’eroe racconta, infatti, di come la vista di Elena, che cercava di mettersi in salvo mentre la città era preda delle fiamme e delle armi achee, avesse scatenato in lui l’ira più profonda e una feroce volontà di vendetta. In quel momento di disperazione e profonda crisi, a salvarlo e ricondurlo a più miti pensieri, a far tornare in lui la ragione, Venere, che gli parla e lo conforta come solo una madre può fare. La sua è una vera e propria apparizione, rievocata dalle parole commosse e turbate di Enea mentre racconta a Didone la drammatica sequenza. Eppure, la solennità della figura (è con l’epiteto alma parens che lui la introduce) non toglie nulla alla dolcezza dell’apostrofe che la madre rivolge al figlio: 594- 595,” Nate, quis indomitas tantus dolor excitat iras?/ Quid furis? Aut quonam nostri tibi cura recessit?” “Figlio, quale grande dolore suscita ire indomabili? Perché sei furioso? Dove è finito il tuo amore per me?).
Ma non si tratta dell’unico luogo dell’opera in cui Virgilio mostra di conoscere e saper cantare perfettamente l’animo di una madre; che si tratti di una dea, una regina, o una donna comune, la sensibilità del Mantovano riesce a coglie tutte le sfumature dell’animo della creatura più solida ed inquieta tra quelle viventi. Nel primo libro dell’Eneide, quando tanto è già accaduto, ma molto ancora deve cominciare, è possibile per il lettore imbattersi in una sequenza rara nell’ambito della poesia epica: un passo in cui una divinità esprime senza riserve la propria paura. Ancora una volta si tratta di Venere, ma di una Venere inedita rispetto al ruolo che la tradizione mitologica le riserva: a partire dal verso 227, è una madre quella che si profonde in una commossa e accorata preghiera. Con le lacrime agli occhi, sfinita per le angosce del figlio, chiede aiuto al potente padre Giove, supplicandolo di porre fine alle sofferenze dei Troiani e del suo Enea (v. 231 meus Aeneas). Solo lui potrà placarla, rivolgendosi da genitore amorevole a una madre che si riscopre figlia, fragile e impotente. Straordinariamente evocativa l’espressione scelta da Virgilio per introdurne la risposta, rassicurante e definitiva: oscula libavit natae, dehinc talia fatur:/ Parce metu, Cytherea: manent immota tuorum/ fata tibi (baciò delicatamente la figlia e disse poi: non avere più paura, Citerea, immutato resta per te il destino).
Le paure di Venere, tuttavia, non si placano, come sa ogni madre che per tutta la vita teme per i propri figli, al di là di ogni ragionevole rassicurazione, e come mostra di sapere perfettamente il Nostro. La dea, infatti, proseguirà nel suo cammino di protezione, facendo ricorso a ogni sorta di sotterfugio pur di tenere suo figlio sempre al sicuro. Farà in modo, in particolare, che di lui non solo si prenda cura, ma bruci di un amore indicibile la regina Didone, in modo che Enea diventi quasi re nel luogo in cui avrebbe solo dovuto essere ospite. Ma questa è un’altra storia che quasi nessuno ignora e che non trova spazio in queste righe, che tornano invece a riflettere sull’importante peso che la figura materna reclama nel grande poema di Roma.
A Venere fa da contraltare la regina Amata, madre di Lavinia, costretta a subire le scelte fatali del re Latino, suo sposo ma soprattutto ambizioso sovrano. All’improvviso tradimento, perché tale è considerato il venir meno di Latino al patto con Turno, re dei Rutuli al quale da tempo Lavinia era stata promessa in sposa, Amata si oppone con tutte le sue forze, prima, ancora in sé, ricorrendo alla ragione e alla persuasione, poi furiosa, di una furia amplificata dal veleno che Aletto, personaggio infernale, le insinua nel corpo e nell’anima. Tragico e disperato sarà l’esito della sua fine, che precipita verso la catastrofe nel momento in cui crede Turno morto in battaglia e definitivamente tracollate le sue speranze: come se in guerra fosse caduto il figlio, non solo si dispera ma si uccide, attribuendo a sé la colpa e la ragione di tanta immensa catastrofe (vv. 598- 603 infelix pugnae iuvenem in certamine credit/ extinctum et subito mentem turbata dolore/se causam clamat crimenque caputque malorum,/multaque per maestum demens effata furorem,/purpureos moritura manu discindit amictus/et nodum informis leti trabe nectit ab alta). La morte di Turno, infatti, avrebbe significato che nessuna speranza rimaneva più neanche per Lavinia, costretta, evidentemente, a sposare lo straniero Enea, che, secondo i suoi timori ancestrali di madre, l’avrebbe prima o poi portata via, in una terra lontana.
Amata, in quanto regina, libera nella sua scompostezza dionisiaca, dà seguito, con il suo infame suicidio, a quello che un’altra madre, protagonista di una pagina straordinariamente drammatica dell’Eneide, può solo limitarsi a sperare e invocare, quando si compie la peggiore delle sventure possibili. L’ultima a sfilare in questa galleria di ritratti rimane, però, senza nome in entrambe le sequenze che la vedono rappresentata. È una donna comune, della stessa stirpe di Priamo, ma non una dea, né una regina. È a lei che Eurialo, giovanissimo guerriero troiano, prima della sua fatale missione, pensa; consapevole del dolore che potrebbe arrecarle, decide, tuttavia, di agire, di sacrificarsi in nome del suo popolo. Non prima, però, di aver confidato ai compagni il cruccio di non poter dire addio a sua madre; non può perché non riuscirebbe a sostenerne le lagrime (vv. 280- 302). Prega allora che qualcuno possa parlarle al posto suo, e gli risponde, profondamente commosso, Iulo, che aveva confidenza con quel tipo di dolore. Lui, il figlio dell’uomo che quella guerra stava provocando, il figlio di Enea, aveva perso a Troia Creusa, e in nome di questa sofferenza condivisa giura a Eurialo che avrebbe provveduto alla madre come fosse stata la sua. Qualche verso più avanti (vv. 450- 502), tutto è ormai accaduto: la testa di Eurialo viene portata in trofeo, insieme a quella del compagno Niso, conficcata su una lancia. Non alla vista diretta, ma alla mediazione della Fama è affidata la rivelazione dell’accaduto. Segue una scena di straziante disperazione.
La grande paura di ogni madre si compie in questi versi; nel monologo della donna, il rimpianto per tutto quanto, per non poter nemmeno prendersi cura delle spoglie del figlio nell’unica speranza finire presto i suoi giorni, scongiurando Giove che la colpisca con il suo fulmine. A rispondere al suo pianto, questa volta, non risponde un dio, ma la pietà degli uomini che le vanno incontro per sostenerla e accompagnarla dolcemente al sicuro.
Doveva essere ben esperto del dolore e delle cure delle madri Virgilio, madri consumate dalla guerra e da assenze incolmabili, per ritrarne così intensamente intenti e timori, per innalzare loro monumentum aere perennius.