foto di Valeria Ferraretto
Lo scorgere di un resto
Lo scorgere di un resto,
colluso dello sfarsi
in forma detta tempo.
Pervaso dal sociale
con l’uso del sanare
sa soltanto giacere
comodamente leso.
Tu poni caso sovvenga l’eterno
Tu poni caso sovvenga l’eterno,
un giorno, alla finestra:
confusa e paga, l’iride raminga.
La testa verso destra,
verrebbe alla mente: posso guardare
io facilmente la regalità tua?
Ci si rivede in quanto sta nell’alto,
lo si ripete. L’esperienza media
contamina, recede.
La mia testa a sinistra
succede che ricada. Io penserei:
posso guardare alla penosità mia
ponendo alcun problema nel mio dire.
Basta solo lo stare insieme a cose:
le buste aperte, le bucce, gli scarti.
Dovunque io veda: pattume, che ieri
alluse ad altro, che oggi è palude.
Mixomiceti
Per tassonomia, poltiglia.
In gerarchia, poco sopra la polvere,
si può dire sorella,
la prossima estinzione.
Da questi testi inediti di Cataldo emerge una tracciatura omogenea del compimento inevitabile dell’esistenza, sia fenomenica che teorica, assieme alla più nichilista (seppur occidentale) congettura da cui deriva il sillogismo per cui se una cosa esiste, questa non può che spegnersi.
Ciò non di meno la tematica principe, se non assolutamente ossessiva, del dettato è il “restare”, assieme al “dire”: l’insistenza dell’osservazione, infatti, si impernia nel lascito di quanto ha saputo sopravvivere, nonostante la consunzione e la contaminazione delle mani umane; seppur da queste origini, poiché a queste destinate.
Considerando poi che un lato, quello destro, il verso si adagia sulla contemplazione di quanto maestoso, mentre quello sinistro, invece, conosce la miserabile penosità di quanto rimane per restare, lo strabismo del verso (o meglio: l’aspetto duale di Giano bifronte) tradisce la conclusione per cui la fine non possa che essere sperata, invocata, persino idealizzata.
Ed è questa la ragione per cui il senso categoricamente ineludibile della risoluzione della vita terrorizza sì il sema, seppur questo contestualmente ne rispecchi la tematica esistenziale, assieme all’interrogativo (inconcluso) per cui l’enunciazione del testo oscilla tra la manifestazione dell’obbiettivo, e la domanda che ancora rimane senza una risposta che trovi senso nella parola.
Eppure, il verso sembra anche toccare una la soglia dell’oggettività, ormai incontrastabile; giustamente, per altro, perché dopo aver così lungo parlato di morte, questa non verrà guardata davvero negli occhi, nell’ultimo momento.
A questo si aggiunge il sentore di irreversibilità della catastrofe annunziata ed in procinto di giungere; ed al contesto si enuncia anche una abitudinarietà al termine dell’esistenza, come se, solo vivendo e scrivendo del quotidiano, l’attante ed il lettore della poesia sviluppino una sorta di prassi ed indolenza alla morte che arriva, sta arrivando, o è arrivata.
Il che ricorda la Parusia messianica nella permanenza del reale, e quindi la compresenza dell’eterno divino negli epifenomeni che informano l’esperibile, disponendone tuttavia il suo negativo.
Infatti: poiché l’esizio di tutto si identifica nel vero degli eventi, ed in questi si indova per incarnarli, i testi sembrano accomodare nell’apocalisse – come rivelazione e disvelamento – una certa speranza ed una affezione fraterna, se non anche l’unico sorriso che sopravvive all’ironia dell’autore.
Ricordando Sartre, l’uomo è libero perché responsabile; ma cosa fare se tal libertà lo deducesse nell’irresponsabilità del proprio agire? A questo quesito, l’unica risposta plausibile si mostra come annichilimento cosmico, non tanto paventato e temuto, quanto più ineluttabile.
Carlo Ragliani