La morte è osceno rospo che s’ammoglia – Diego Riccobene

La morte è osceno rospo che s’ammoglia – Diego Riccobene
 
 
 
 
Si scioglie nel sudore per possenti
sferzate d’usta alata dal libeccio,
ne impecia anche le belve
che scolma dall’incesto della pelle
sfrangiata da enfisemi
dopo il prolasso del tessuto molle.
È tardi allora per cimento o veglia,
 
nessun sepolto si ritenga salvo
dall’irresolutezza nell’orrendo,
dal rinserrare l’obolo
al sole, tra le ingluvie fraudolente
e similmente all’ombra
sotto le aguglie anemiche dell’Orco.
E poi quando, frendendo i denti, schiocca
 
la mascella nell’impeto del cèlabro,
saranno estinti spirito e memoria
– sempre che l’uno e l’altra
non siano infingimenti da catabasi –
e i gas fermenteranno
dall’ablazione per scollar l’epifisi.
La morte è osceno rospo che s’ammoglia.
 
 
 
 
 
 
Traccia il tuo solco, sollecita cerva,
tra l’erba seccata dal sole;
 
è brezza la voce cabiria,
carme su nudi sovrani squartati
 
lungo crinali blanditi d’opale.
 
 
 
 
 
 
Il corso non intatto di albe archetipe:
fantocci eunuchi lumano puttane
e il ganglio di cinabro si protende
a un cirro infradiciandolo di sangue.
 
Immagina tebaidi schiuse all’occhio,
sacrati conciliaboli di sposi
sul debosciato altare ad Asmodeo.
Mi chiedi come vincere quel giogo?
 
Non grava come omaggio al Mal Superno!
Ha in odio il puzzo d’interiora cotte,
la galla incisa sulla squama forte:
innalzala su legno tamarindo.
 
 
 
 
 
 
Il martire ringhiava,
il sacro rigirìo si risolse
bevendo la lisciva a brevi sorsi
da quella delittuosa colocasia;
fu quando udii le voci dagli azzurri
che a valle mi stordivano
svillaneggiando lungo i miei ventricoli
fino al richiamo della procellaria.
 
E sono solo un ladro
a dirla tutta, adiaforo in latenza
che amò saziarsi di sembianza e croste
rimasticate in dies irae lunghi
come le pieghe d’una scolopendra,
un vaniloquio tale
da impaludarmi in ecfrasi e ghirlande,
intossicanti tare di pervinca.
 
(Diego Riccobene, Ballate Nere, ItalicpeQuod, 2021)
 
 

Diacronico, tosto che anacronistico, il dettato di Riccobene si colloca opaco e corvino sul pallore della pagina, consegnando al lettore un’esuvia certamente ieratica, e badiale nel suo disporsi invece che laconica, ma non meno per questo austero nel suo sacerdozio poetico.

Sin dal principio, l’opera chiama a sé una forma che intende sicuramente alle configurazioni del classico da un lato, e dall’altro alligna il canto nell’orrore (se non anche all’orrendo) che ogni istante si distende sulla tela dell’esistenza.

Ciò non di meno, non si tratta di una scrittura misoneista, né anche di un verso che intenda riportare in auge determinati canoni e stilemi; quanto più si tratta di una voce che incarna una dialettica negativa e di senso contrario alla poetica che solca la quotidianità odierna.

Rimanendo sempre sul versante formale, potremmo dire che il verso dell’autore richiami a sé una attualizzazione, erudita dal rigore necessario dall’arte, della sagoma della poesia; incarnando una creatura il cui endoscheletro consiste nella struttura prosodica fissa e canonica, la cui muscolatura si concentra in un fascio eufonico che avviluppa l’ossatura fondamentalmente metrica del verso, nella forma di endecasillabi e settenari giambici nei testi selezionati.

Per questo, invero, non si ravvisa la necessità di una valutazione alla luce dell’oggetto libro – opera prima, per altro, di cui non è possibile non notare lo spessore – inteso come prova letteraria che computa una spirale che ricade in sé stessa, o che trovi ragion d’essere in quanto scritta.

Infatti è quanto più verosimile che questo testo sia da intendere come un abbrivio sì di una poetica personalissima, ma anche una foce della necessità sorgiva che, nel tempo, ha eroso una fossa da allagare; soverchiando così tutto ciò che dell’episteme la versificazione ha potuto portare con sé.

Sempre riguardando la tematica dello spessore; fondamentale di fatto è la fabbrica immaginifica che trafigge la deformazione della realtà con gli strali che il canone sa offrire.

Questo perché, da un lato, la ricerca di Riccobene risponde all’infibulazione che il sema ha subito a causa della vulgata popolare del linguaggio, facendo proprio un vocabolario dall’alta e pregiatissima pregnanza certamente, e contestualmente richiamando un certo odi profanum vulgus Oraziano.

Dall’altro, approdando ad un versante più geroglifico (nel suo significato greco), nell’autore è manifesto un ribaltamento del paradigma conoscitivo rispetto alla struttura dominante della nominazione.

Sarà, infatti, la medesima bruttura epifenomenica a instaurare il nostos (νόστος) orrorifico e cosmico di cui la kenosis (κένωσις) della divinità giudaica, nel frammentarsi progressivo, rimane (colpevolmente) all’oscuro.

Perciò la compattezza linguistica e tematica, a cavaliere della quale si pone un lirismo impermeabile nel suo essere invocatore, spinge nel male assoluto; e nella contraddizione sia diabolica che simbolica, i cui esiti rimangono incomputabili, ineffabili nel loro nucleo apofatico.

Fondamentale poi, e conseguenza della crisi del codice poetico novecentesco, è l’io lirico dell’opera; questo, infatti, sorge in incipit come cantore sinistro, e portatore della mala novella e della migragna; per poi abiurarne ogni verso, ed infine anche sé stesso, sul rogo dell’inquisizione.

Ma tra il riso della folla e le grida del martire, tra la colpevolezza del falso ed il peccato che si impossessa di ogni manifestazione del pensiero non appena si contrappone all’uso comune (ma non per questo adeguato) della vita; come distinguere un confine tra questi – se anche la poiesis col suo senso è delatoria, e l’ironia è l’unica (se non anzi l’ultima) forma di libertà di chi sarà comunque condannato a servire la pena capitale?

La risposta è fornita dal dettato, affondando il senso più profondo della propria esistenza nella visionarietà, come risposta più sincera che la poesia possa fornire: per questo, nell’opera siamo chiamati ad affrontare una crudezza estetica che veicola la più profonda perversione dell’essere umano assieme alla più eterea mistica e del sogno e del miracoloso, che assieme sgorgano dal verso di Riccobene.

Visioni, infatti, che non risparmiano nessuna fattispecie della sfera religiosa abramitica (ipogea, o celeste che sia – ammesso si possano discernere le une dalle altre), né si sottrae materia alla forgia mistica della in-creazione poetica; passando quindi per l’Athanor alchemico, la realtà riassume la forma grottesca, e per il canto fosco, e per l’alchimia che solo la potenza del canto conosce e dispone.

 

Carlo Ragliani